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venerdì, 29 Marzo 2024

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‘Immunitates, Franchitias et Libertates’

‘L’insediamento di San Bartolomeo nel Medioevo’ continua il viaggio con le immunità, franchigie e libertà concesse nel 1331.

L’otto maggio 1331, con un atto rogato dal notaio Raone di Foiano, l’abate fra Nicola da Ferrazzano e il procuratore fra Nicola da Cerce concessero agli abitanti del casale di San Bartolomeo in Galdo, da poco sorto, “immunitates, franchitias et libertates”, a conferma della stretta dipendenza che esisteva tra il nuovo casale e il monastero del Gualdo. L’atto consta di tre parti: la prima parte è stata scritta dal notaio Canterello di Foiano, che nel 1337 autenticò lo strumento dell’8 maggio 1331. La seconda parte è costituita dall’atto scritto dal notaio Raone l’8 maggio 1331. La terza parte riporta lo strumento di procura scritto da Raone il 29 aprile precedente. Innanzitutto “l’abate e il convento si impegnavano ad esentare i cittadini per dieci anni (dal 1331 al 1341) dal pagamento di qualsiasi colletta o sovvenzione spettante alla Corte. Se in questi dieci anni fosse capitato di dover pagare qualche tributo, lo stesso abate e il convento avrebbero corrisposto, in luogo dei vassalli, la colletta o la sovvenzione dovuta. Tutti i cittadini potevano a loro arbitrio erbare, acquare e legnare per i territori di Ripa de Alterno, Castelmagno, S. Angelo in Vico e Foiano, ma solo ai padri di famiglia era concesso di portare liberamente gli animali al pascolo altrui, in numero non superiore a dieci. Ciascun padre di famiglia poteva ottenere per la sua abitazione il terreno sufficiente per un vigneto, un orto o un pagliaio. Era concesso a tutti di possedere, vendere, donare, permutare, alienare o lasciare per testamento i propri beni immobili, fatti salvi ovviamente i beni del monastero. Per cui ogni bene donato a chiese o ad ecclesiastici doveva, nel volgere di un anno, essere rivenduto dai destinatari a un vassallo del casale, altrimenti il bene donato sarebbe ritornato di proprietà del monastero” : era questa una clausola restrittiva, ma in tal modo la proprietà rimaneva sempre a disposizione del vassallo. “Era consentito a ciascun vassallo di andar via liberamente dal casale; ciascun vassallo aveva la possibilità di costruire liberamente e possedere centimoli (mulini) anche per sfarinare il grano altrui. Ovviamente, se era in funzione, nella zona, il mulino del monastero, il possessore del centimolo poteva sfarinare solo il grano necessario alla propria famiglia e al mulino del monastero si sarebbe dovuto corrispondere un sedicesimo del grano sfarinato. Era lecito ad ogni vassallo costruire liberamente il suo forno e possederlo per sempre libero e franco da ogni servitù”: altrove, invece, bisognava recarsi necessariamente al forno del feudatario. “I vassalli che volevano lavorar campi o metter su aziende agricole potevano coltivare i terreni loro concessi dall’abate con la prestazione di un tomolo su undici come decima. Chiunque di essi avesse fatto una coltura arborea o avesse piantato una vigna nelle terre soggette a terratico, avrebbe conservato la nuova coltura per sempre libera e franca da ogni prestazione.
Il monastero, per esonerare da un gravame i cittadini, avrebbe provveduto alla scelta a tempo opportuno di un baglivo o di più baglivi. E per la sovvenzione dovuta a questo baglivo si faceva obbligo a ogni padre di famiglia di corrispondere alla Corte del monastero la quarta parte di un tomolo di grano nella festività di S. Maria di settembre (cioè l’8 settembre). In forma di omaggio e di riverenza, ogni vassallo era tenuto a portare personalmente alla corte del monastero un bucellato di pane nelle festività di Natale e di Pasqua; chi fosse venuto meno al suo obbligo, avrebbe dovuto portarne nove invece di uno. Dal canto suo la Corte era tenuta a dare in contraccambio un ciato di vino. Ogni anno gli abitanti del casale dovevano eleggere il ‘camerario’ e il giudice del casale; e costoro, dopo la conferma della Corte, avrebbero dovuto assolvere per un anno al loro compito con diligenza e fedeltà. Né all’abate, né ai suoi successori o ai suoi ufficiali era lecito imporre gabelle agli uomini del casale o imporre per obbligo ai vassalli di andare per conto loro fuori dal castro a portare lettere con valore di mandato”: è questa una franchigia a cui gli abitanti di San Bartolomeo tenevano moltissimo. Infatti, nel 1372 essi si ribellarono apertamente contro il monastero a motivo di questa concessione. “E nessun vassallo era obbligato a prestare panni per letti in favore dell’abate o di suoi familiari, a meno che non volesse farlo di sua spontanea iniziativa. Era concesso a tutti di aprire liberamente cianche, di vendere la carne degli animali uccisi senza pagare alcun diritto alla Corte e di aprire liberamente taverne”: altrove, invece, la taverna era un corpo feudale di proprietà del feudatario. Queste “immunitates, franchitias et libertates” erano valide per tutti gli abitanti del nuovo casale di San Bartolomeo, che lì si erano trasferiti per abitarvi come fedeli vassalli del monastero, e anche per tutti coloro che in seguito vi si sarebbero trasferiti ad abitare con i loro beni.

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