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martedì, 19 Marzo 2024

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I ‘capitula’ del 1360

Un altro appuntamento con il viaggio nella storia ‘L’insediamento di San Bartolomeo nel Medioevo’ questa volta con gli statuti del 1360.

Dopo la concessione delle “immunitates, franchitias et libertates”, il nuovo casale di San Bartolomeo in Galdo andò progressivamente incrementandosi, per cui, sia per il numero degli abitanti e ancor più per la diversità della loro provenienza, si avvertì l’esigenza di mettere per iscritto le consuetudini che regolavano la vita degli abitanti e, inoltre, fu necessario aggiungere altre norme relative ai privilegi ottenuti trent’anni prima, onde evitare incertezze, dubbi, abusi e soprattutto per determinare meglio i rapporti tra vassalli e abate feudatario. In quel periodo un po’ ovunque, nelle contrade del regno di Napoli, furono concessi Statuti che si potevano distinguere in due tipi: gli statuti elaborati dai soli rappresentanti del popolo e gli statuti compilati unilateralmente dall’università e dal feudatario. Quest’ultimi si trovavano in due forme diverse : alcuni apparivano sotto forma di capitolazioni, cioè contratti tra le università e i rispettivi feudatari relativi ad interessi patrimoniali; altri invece avevano la forma di petizione contenente diverse domande, a ciascuna delle quali il feudatario apponeva il ‘ placet’ con o senza qualche limitazione, oppure il ‘non placet’.
Esistevano inoltre quelle che erano chiamate ‘grazie e privilegiì’, con le quali si concedeva qualche privilegio, favore o esenzione dai pesi pubblici. Anche nel nuovo borgo quindi, si avvertì la necessità di stabilire delle norme e di regolare le abitudini di vita per cercare di unificare usi e costumi che erano ancora legati ai casali di origine. Si pervenne così, il 1 novembre 1360, alla stipula dei cosiddetti Statuti o ‘Capitula”. Questi ultimi, a differenza di quelli del 1331 emanati unilateralmente dall’abate, che concesse benefici, libertà,…, scaturirono da un lavoro comune dell’abate e dell’Università .
Questa caratteristica di lavoro comune tra abate e Università sarà presente anche in tutte le aggiunte dei secoli posteriori. Ciò sta a dimostrare che la collaborazione tra le varie rappresentanze di governo che animò la concessione dei primi Statuti, divenne col tempo una caratteristica della politica amministrativa del piccolo centro. Il ‘liber’ originale degli Statuti si conservava ancora verso la fine del 500, quando la badia passò sotto il controllo di Oliviero Carafa. Il manoscritto contava 67 pagine e riportava, oltre agli Statuti originali, anche copie relative ad alcuni atti e precisamente la copia dell’atto del 1337, la copia dell’atto relativo alla donazione di S. Angelo, e si chiudeva con le dichiarazioni degli abati Federico ed Alfonso Carafa.
Sfortunatamente il manoscritto originale è andato perduto, ma grazie al lavoro di trascrizione e traduzione dell’abate Gestara, buona parte dell’opera è stata recuperata ed è conservata nell’archivio di Stato di Napoli. Da una prima lettura degli Statuti si apprende che l’Università era retta da un camerario e da un giudice annuale; in seguito essi furono affiancati da otto eletti; l’amministrazione durava in carica un anno. Il nuovo agglomerato urbano era pur sempre un borgo rurale e, pertanto, i capitoli degli Statuti sono semplici, scarni, lineari. Sono norme di vita comunitaria riguardanti rapporti di civile convivenza e di lavoro. La maggior parte dei capitoli riguarda il paesaggio, e in particolare la difesa di terre, boschi ed orti: ‘cap.16, cap.37, cap.48, cap.50, cap.57, cap.44’.
Come possiamo notare, l’interesse principale di chi ha elaborato questi ‘Capitula’ riguarda il paesaggio agricolo, ed in particolare le terre lavorate, i boschi, le vigne, proprio perché l’economia agraria è la base e l’essenziale della vita materiale durante il Medioevo, ed è la terra che fornisce il necessario per vivere. Oltre a coltivare i campi del monastero, i contadini lavorando la terra, ricavavano il necessario al loro sostentamento: quindi, nel momento in cui furono elaborate delle leggi, esse avevano la priorità di difendere gli interessi dei contadini, che ricoprivano un ruolo importante nella catena produttiva medievale.
Le terre che si estendevano intorno al villaggio erano quasi tutte coltivate: campi di grano, mais, avena, ma a volte a causa di una siccità o al contrario di un’inondazione, tutto il lavoro di un anno andava perduto. Inoltre la terra, in questo periodo, era spesso avara anche perché era lavorata male a causa di un’attrezzatura rudimentale: tutto questo determinava una scarsa produttività e condizioni di vita molto dure. Oltre ai campi coltivati, vi erano nella zona anche molte vigne, come possiamo desumere dagli stessi Statuti ‘cap.16’, che spesso però venivano danneggiate dagli animali, buoi, somari, maiali, sfuggiti al controllo dei padroni; si cercava di ovviare a questo tramite il pagamento di una multa.
Tutta la zona inoltre, era circondata da boschi, come a confermare l’antica origine di San Bartolomeo in Galdo. Gli abitanti del nuovo borgo ricavavano molte cose dal bosco: muschio e foglie per i giacigli, pascoli freschi per gli animali, ma soprattutto legna per riscaldarsi: e proprio il legno era considerato una materia così preziosa tale da divenire uno dei simboli dei beni terreni. Anche per questo, chi veniva trovato a tagliare legna senza permesso nelle selve sopraindicate ‘cap.36’, era punito con il pagamento di un’ammenda.
Tutto ciò ci porta a fare una riflessione riguardo la condizione dei contadini: esistevano, al tempo, delle disparità di condizioni tra di essi? Possiamo semplicemente dire che l’unica differenza consisteva nel possesso o meno dei mezzi per arare e nel numero degli animali; per il resto il fattore che li accomunava era una vita di fatica e di duro lavoro. Questi Statuti appaiono, nella loro forma, scarni, semplici e lineari. Ma, a leggerli attentamente, essi sembrano avere qualcosa di più, come se nell’elaborazione avesse operato una mente precorritrice di tempi più maturi, certamente espressione di esperienze politiche più vaste, meno provinciali. Per la prima volta, infatti, in Statuti riguardanti un piccolo centro, si fa un rapido accenno a quelli che potremmo definire “diritti umani”.
Quindi, il solito diritto di proprietà, sempre accuratamente difeso negli Statuti medievali, è affiancato da un altro diritto, quello della persona, e in particolare delle persone più deboli, come donne e bambini, nonché dei lavoratori salariati, come gualani, stallieri e domestici. Questo mette ancor più in evidenza quanto fossero saldi i legami interpersonali anche nel periodo medievale, soprattutto a livello familiare. La famiglia era un saldo organismo naturale e morale, sostenuto da norme giuridiche dirette a salvaguardarne il patrimonio comune ed a tutelare i diritti dei singoli componenti su quello stesso patrimonio, nell’interesse loro e della collettività familiare. I membri della famiglia erano strettamente solidali tra di loro, pronti a difendersi reciprocamente e a vendicare l’offesa recata ad uno di loro. Più generazioni vivevano sotto lo stesso tetto o in case vicine, tanto da formare un vera e propria comunità nella comunità, che aveva i suoi statuti ed eleggeva anche i suoi capi…
I figli dovevano sottostare sempre all’autorità del ‘paterfamilias’, nonostante raggiungessero la maggiore età o vivessero in un’altra casa. Le donne, nubili o sposate, facevano inscindibilmente parte della comunità familiare originaria o di quella in cui erano entrate a far parte con il matrimonio, ma le leggi avevano di molto alleggerito la pesante condizione a cui erano state sottoposte dalle leggi barbariche.
Queste novità riguardo l’aspetto “umano” fanno degli Statuti di San Bartolomeo in Galdo un documento all’avanguardia rispetto a tutti gli Statuti del beneventano, come ad esempio quelli di Baselice o Castelvetere.

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