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giovedì, 28 Marzo 2024

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Tra consensi e sospetti

Ancora una puntata del viaggio nella storia dell’Istituto del Calvario e di mons.Pepe, questa terza parte concerne l’opera caritativa: la Casa di riposo e di cura.

Prima di arrivare alla collocazione della prima pietra, G. Pepe deve superare non pochi ostacoli. Dal 1921 al 1929 è tutto un travaglio di lotte. Il sindaco di S. Bartolomeo, Pietro Colatruglio è favorevole all’iniziativa; ma la Giunta Provinciale Amministrativa, non sembra essere entusiasta del progetto di Pepe. Perciò la prima richiesta del suolo comunale adiacente alla Chiesa e dell’antistante terreno sul declivio del poggio va a vuoto. La richiesta arriva in porto il 19 dicembre 1923 e il Comune delibera la concessione il 23 aprile 1924: 133 metri quadri sul suolo comunale a titolo gratuito per scopo esclusivo di beneficenza, identificato nella costruzione di un vasto edifìcio da adibirsi a Ricovero di mendicità ed orfanotrofio, e 1433 metri quadri di terreno di fronte all’erigendo edificio in enfiteusi perpetua, da destinarsi esclusivamente a giardino di piante ornamentali. Si precisa che la concessione è fatta alla condizione che, in caso di mancanza della costruzione o di cambiamento della destinazione d’uso tutto ritorni in proprietà del Comune. Si assegna il termine di cinque anni per l’inizio dell’opera e il lasso di dieci anni per l’ultimazione. Giovanni Pepe è pronto ad iniziare i lavori. Ma la somma ricavata dalle sue operazioni preliminari è stornata dal suo primissimo scopo da una necessità più urgente: la predetta installazione della ‘Casa di Suore della Carità’, strumento di elevazione morale e civile del popolo, per il quale egli aveva alienato il sacro patrimonio costituitegli dal ricco nonno materno Michele Petrilli (12 ettari di terreno sativo con casa rurale) e una vigna donatagli dalla madre con pioppeto, più tutto il ricavo della sua attività d’insegnamento e di predicazione, oltre che dalla gestione di importanti uffici ecclesiastici: una casa al supportico Colagrossi, un’altra al Corso del Popolo (due quartini con un florido giardino). Tutto per l’acquisto del Palazzo Martini, che diveranno sale dell’istituzione caritativa per l’educazione di bambine e di giovanette. A queste ultime venivano destinate iniziative di formazione culturale e insieme di istruzione nelle arti del cucito, del ricamo e delle mansioni domestiche, del catechismo pomeridiano, e così via. In questa impresa egli aveva sacrificato anche la cospicua dote e il corredo di sua sorella nubile. Senza casa e senza mezzi, egli con la sorella si era ridotto a vivere nella sagrestia, riadattata, della Chiesetta del Calvario.
Perciò, quando arriva la concessione del Sindaco Colatruglio, egli non è più in condizione di iniziare i lavori. E la malvolenza si mette in movimento. Le maldicenze si accentuano quando, il 18 febbraio 1928, gli arriva una lettera di un suo parente degli Stati Uniti, che gli comunica la costituzione del Comitato, già mensionato
“dei più eminenti nostri cittadini negli Stati Uniti – come dice l’appello lanciato agli emigrati – con la nobile e santa iniziativa della fondazione di un Ospedale nel nostro Comune natio”
. L’appello è legato alla lettera per conoscenza e parla della grande opera di beneficenza e di fratellanza come di un progetto da completare in due anni, secondo il piano espressamente preparato da G. Pepe. I benefattori sono gratificati da promessa di epigrafi e albi d’oro. La risposta di G. Pepe si muove nella direzione presa con l’acquisto del Calvario: egli mette a disposizione del Comitato, Chiesa, casa, suolo e l’opera sua, ma si attribuisce
“il diritto a suggerire senza egoismi e senza vanità, soltanto a maggior gloria di Gesù Redentore, il modo migliore per provvedere alle necessità impellenti del nostro paese”
. E propone il ricordato compromesso, accettato e approvato dagli “americani”: Casa di riposo e di cura. Il Comitato manda in Italia il suo Segretario Bartolomeo Masella, che vede il luogo, concorda il progetto, patteggia i tempi e i modi, si impegna alle collette. Poi riparte. Ma i soldi americani non sono sufficienti. E G. Pepe è costretto anche a contrarre mutui in suo nome. La mattina del 2 giugno 1929 si pose la prima pietra, tra l’entusiasmo del popolo e il consenso delle autorità. Tutti i rappresentanti, civili e religiosi del circondario e della Diocesi, maggiorenti, notabili, sono mobilitati per la grande festa. Gli auspici sembrano propizi. Ma le difficoltà non tardano a manifestarsi. Mentre Pepe esalta e amplifica la gara d’amore degli emigrati per accrescere la, risonanza della sua opera e aumentare il coinvolgimento nell’opera di carità, attraverso le pagine del suo “Bollettino”, dall’America giungono, e trovano eco nel paese, dissonanze fastidiose, sensazioni di perplessità o di contrarietà. E lo stesso responsabile del Comitato che se ne fa portavoce.
“Vi sono molti che si meravigliano come, mentre i poveri hanno risposto subito generosamente all’appello – scrive al Pepe dall’America – i ricchi del nostro paese non ancora si muovono (…). Come si spiega questo fenomeno?”
. Neppure le incoraggianti parole del Generale Medico Saccone smuovono certe forme di resistenze. G. Pepe cerca di richiamare i suoi sostenitori al senso della realtà: le persone amanti del pubblico bene – spiega – sono rarissime al mondo, perché non è facile spogliarsi delle proprie sostanze per soccorrere i bisognosi e i miseri:
“ordinariamente hanno compassione sincera dei poveri quelli che hanno provato in se stessi l’amarezza del bisogno e dell’abbandono e corrono affettuosamente a tergere le lacrime altrui, solo quelli che sanno che significa piangere e soffrire”.
Ma si mostra convinto che, anche tra i ricchi ci sono nobili eccezioni. E se ancora non si vedono è perché il distacco dalle ricchezza richiede lotta e sacrificio: non bisogna quindi, disperare, dopo l’esempio dei poveri, c’è da attendersi anche l’aiuto risolutivo dei ricchi. Le mormorazioni e le malignazioni non si riducono e Pepe si vede costretto ad alzare la voce:
“lasciamo da banda gli ignoranti e i malevoli. Anche questi ci sono stati sempre nel mondo; ma non sono riusciti mai, viva Dio!, a fiaccare la tempra robusta dei caratteri adamantini e ad arrestarli nel cammino luminoso delle loro sante iniziative. Ci sono, è vero, anche nel nostro paese – lo abbiamo constatato in queste stesse vacanze con immenso dolore dell’animo nostro senza però scandalizzarcene – dei microcefali, che non sanno guardare al di là del loro naso sporco di tabacco e arrossato dal vino che bevono, ai quali appare strano chi dimentica i propri interessi e si dedica al bene altrui. Quindi chiacchierano, criticano stupidamente e diffondono ai quattro venti le invenzioni della bugiarda loro fantasia malata Ne mancano dei malvagi ed oziosi – ammali rarissimi per nostra fortuna – che per invidia o per altri ignobili motivi seminano zizzania e inventano sciocchezze di ogni maniera forse perché pensano che, volgendosi verso le opere pie l’attenzione e l’aiuto finanziario degli Americani e della buona gente rimasta in paese, difficilmente potranno vivere alle spalle delle povere classi lavoratrici e sfruttare la loro buona fede. Basta così Non raggiornarli ai lor ma guarda e passa, secondo l’aureo detto del nostro buon padre Dante. I cattivi non prevarranno”.
Quando l’edificio parve compiuto, la destinazione dell’uso iniziale divenne sempre più problematica. C’ era l’infrastruttura, ma la Casa di riposo e di cura non compariva. Le ragioni manifeste erano date dalla mancanza delle attrezzature necessarie alla gestione di un gerontocomio e degli strumenti tecnologici indispensabili ad un ospedale.

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