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venerdì, 29 Marzo 2024

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Gualani e stallieri

Viaggiando su Internet, mi sono imbattuto in un articolo a firma di Anna Fiorino dal titolo Articolo 18 Scoop medioevale – Inventato da due Abati molisani nel 1300. Datato 12 dicembre 2014, è stato pubblicato sul sito del quotidiano Il Tempo. Com’è facile intuire, l’articolo 18 in questione è quello dello Statuto dei Lavoratori, da lungo tempo al centro del dibattito politico italiano e modificato nella sostanza dal cosiddetto Jobs Act varato dal governo Renzi. Proprio per questo motivo di attualità, ho ritenuto opportuno portare all’attenzione del vostro magnifico sito (e, quindi, dei sanbartolomeani che lo frequentano da ogni parte del mondo), l’articolo di Anna Fiorino, che ci racconta questa interessante curiosità legata alla storia del nostro paese.  

«Non era il 18, ma l’articolo 69 dello Statuto comunale di San Bartolomeo in Galdo. Un paese popolato trentanni dopo il 1300, oggi nel beneventano, al tempo nel più vasto e orgoglioso territorio del Sannio crocevia tra Campania e Puglia intorno al Fortore. Il divieto di licenziare senza giusta causa è contenuto nel documento su Immunità, Franchigie e Libertà del Comune autorizzato dal Re Roberto DAngiò e trasmesso nel 1337 alla Curia Vaticana.L’abbazia di Santa  Maria del Gualdo viene fondata il 14 aprile 1156 da San Giovanni Eremita da Tufara. L’autorizzazione a pregare e a studiare arrivò con la bolla di papa Adriano IV. Il maggiore studioso dell’Abbazia, in seguito distrutta da un terremoto, fu padre Antonio Casamassa nella prima metà del 900. Lo storico era convinto si trattasse di uno dei più importanti centri religiosi del Medio Evo difeso e sostenuto da Federico II di Svezia, Carlo I D’Angiò e Bonifacio VIII che elevò il Monastero in Abbazia alla fine del 1200. Altri due Papi intervennero in soccorso per difenderla dagli avignonesi, Giovanni XII nel 1333 e Papa Urbano V nel 1363. In questo luogo imponente e importante vissero i due abati molisani Nicola da Ferrazzano (un paese alle porte di Campobasso) e Nicola da Cerce (Cercemaggiore, un altro comune oggi in provincia di Campobasso) che fu anche procuratore dell’Abazia.  (Nella foto la chiesa dell’antica abbazia di santa Maria del gualdo ai tempi nostri) Chiudete gli occhi ora e immaginate i monaci nel monastero. Poca luce, clima difficile, preghiera. Nel 1326 l’abate Nicola fondò il paese che si popolò intorno al monastero. Gente comune c’era e arrivava povera gente che cercava lavoro. La terra era l’unico sostentamento insieme ai servizi resi ai proprietari di feudi locali. Povera gente intimidita e ignorante che ringraziava per un pezzo di pane e non era avvezza a protestare. Non si usava e non si poteva nemmeno pensare. Le case erano principalmente stalle dove insieme si ricoveravano pastori e bestiame. Fu allora che i monaci benedettini simpegnarono a mettere giù un po di regole, come dovette fare il povero Mosè.Il Comune di San Bartolomeo in Galdo ha caricato l’antico Statuto sul suo sito. Oggi grazie al vice presidente della Regione Molise, Michele Petraroia sulla scoperta si tiene un convegno a Campobasso (via Genova 11 dalle ore 14,30) con gli interventi tra gli altri di mons. Bregantini, Sergio del Fattore e Giovanni Notaro, Cgil e Cisl, e i docenti dell’Università del Molise Corazza, Serpico e Focareto). Si metterà in luce la potenza dellart. 69 intitolato Dei lavoratori gualani (addetti al bestiame) e stallieri tenuti dagli uomini di detto castro ai loro servizi. In pratica, sottolinea l’esponente della sinistra Pd, si disciplina la giusta causa come motivo fondato per licenziare un lavoratore. La Rerum Novarum di Leone XIII è della fine dellOttocento e per avere in Italia una norma a garanzia della parte più debole del mercato bisogna aspettare la legge 300 del 20 maggio 1970. Petraroia non dimentica di ricordare che i due Abati anticiparono il pensiero marxista del XIX secolo e che quanto il re quanto il Papa approvarono entusiasti le norme dello Statuto che in generale, figlie della morale cristiana, tutelavano sì il lavoro, ma anche le donne, i fanciulli e i più deboli.

La documentazione del ritrovamento che il politico esalta contro la guerra allart. 18 che tutela il posto di lavoro e più in generale contro la pressione delle gerarchie finanziarie comunitarie a comprimere le tutele sociali è stata messa a disposizione da mons. Ciro Starnataro, direttore dell’Istituto Pastorale presso la Pontificia facoltà Teologia dell’Italia Meridionale. Si tratta di una copia dello Statuto rogato l’8 maggio 1331 estratta dalla pergamena originale conservata nell’Archivio dei Canoni Lateranensi a Roma. Il documento, frutto, secondo gli storici, persino di un ampio confronto democratico, sanziona il servilismo e sancisce il principio della pacificazione e del garantismo spiegando ai datori di lavoro che se rescindono i contratti anzitempo sono costretti a sborsare se se ne vanno prima del tempo per andare a guadagnare di più.

Regole di pacifica convivenza.
La straordinarietà storica e culturale del documento sta tutta in quel ricorso continuo alle espressioni giusta o ingiusta causa quando si parla del lavoro che si può perdere o cambiare. Già si sono avviate le ricerche negli archivi di Napoli per acquisire le copie originali degli Statuti del 1331 (prima versione) e 1360 (aggiornata). Petraroia, che è anche assessore al lavoro non ha raccolto solo entusiasmo interno al convegno di oggi. L’opposizione lo irride e pretende che paghi la cassa integrazione in deroga a 282 lavoratori invece di dedicarsi alla ricerca storica alle origini dell’articolo 18. Lui tira diritto e porta il Molise, la cui storia non smette di svelare meravigliosi volti e regalare sorprese, al centro della scena». Prima di proseguire, un appunto. Non me ne voglia la giornalista Anna Fiorino se la contraddico quando afferma che il paese, nel 1326, si popolò intorno al monastero: a onor del vero, San Bartolomeo in Galdo crebbe intorno a una cappella rurale, posta a suo tempo verosimilmente ove oggi sorge l’attuale Chiesa Madre dedicata all’apostolo san Bartolomeo e al beato Giovanni da Tufara, che dista più di 20 chilometri dai resti del citato monastero, in località Bosco Mazzocca, sotto la giurisdizione del Comune di Foiano di Valfortore.

 Dopo questa precisazione, veniamo al convegno. Si è trattato di un seminario scientifico tenutosi il 12 dicembre 2014 presso il Palazzo Vitale di Campobasso, sede della Regione Molise. Tema: Il licenziamento privo di GIUSTA CAUSA tra storia e attualità: riflessioni sull’atto fondativo del Comune di San Bartolomeo in Galdo del 1331-1360 che anticipa di 600 anni lart. 18 dello STATUTO DEI DIRITTI DEI LAVORATORI. Oltre alle persone citate nell’articolo, hanno partecipato al dibattito (coordinato dall’assessore Regionale al Lavoro Michele Petrarola): Paolo Di Laura Frattura (Presidente della Giunta Regionale del Molise), Gianfranco Marcasciano (Sindaco di San Bartolomeo in Galdo), Antonio  Cerio (Sindaco di Ferrazzano),Vincenza Testa (sindaco di Cercemaggiore), Sandro Del Fattore (Segretario Generale CGIL Molise), Giovanni Notaro (Segretario aggiunto CISL Abruzzo Molise), Tecla Boccardo (Segretario Generale UIL Molise), Michele Pappone (Presidente ElsabThe European Law Students Association). Una premessa. Nel Lessico universale italiano dellEnciclopedia Italiana Treccani (IX, Roma, 1972) a p. 464 si legge: «Gualano (ant. guallano o guallaro) s. m. [dal germ.Wald-man, comp. di wald bosco man uomo; cfr. lat.mediev.gualdemannus].  (Sotto copia fotostatica dei Capitula concessi dal re Roberto D’angiò ai monaci benedettini dell’abbazia del Gualdo                                            per il ripopolamento del territorio dell’odierna San Bartolomeo in Galdo)

Nell’Italia meridionale lavoratore agricolo a contratto annuo, addetto alla custodia di terre o alla cura e al governo degli animali (equini o bovini) che impiega nei lavori di trasporto  o di aratura. Latino medioevale Gualdemannus». Alla luce di tutto ciò, è d’obbligo, quindi, riportare questo ormai famoso articolo 69 (tradotto dal latino), riguardante i lavoratori gualani e stallieri tenuti dagli uomini del detto castro ai loro servizi: «Parimenti, se i lavoratori gualani o stallieri nonché anche i domestici addetti a qualunque servizio e ingaggiati dagli uomini del detto castro per tutto l’anno e detti lavoratori gualani e stallieri o domestici vorranno recedere prima dell’anno, spinti da una causa giusta e necessaria, prescriviamo che, dalla festa di S. Martino del mese di novembre fino a tutto l’ultimo giorno del mese di marzo successivo, per il trattamento da fare loro entro la festa di S.Martino del mese di marzo i predetti due mesi si computino per uno. Parimenti, se qualcuno prenderà o ingaggerà alcuni lavoratori e stallieri per tutto l’anno e dopo che si sarà seminato vorrà licenziarli senza essere spinto da alcuna causa giusta e ragionevole, nel trattamento da fare loro per quei mesi nei quali sono stati addetti al servizio del padrone, sia loro corrisposto per due mesi il salario come se in quei mesi avessero prestato servizio. Parimenti, dopo che siano stati ingaggiati dalla festa di S. Maria di settembre detti lavoratori gualani stallieri e domestici per tutto l’anno e vorranno nel corso dellanno recedere senza alcuna causa legittima e in seguito staranno con altri padroni per un salario maggiore promesso loro, quel di più promesso dagli stessi padroni oltre il salario precedente promesso loro dai padroni precedenti sia restituito e consegnato aiprecedenti padroni». Nei tempi successivi, con i termini gualani o galani o alani vennero indicati per lo più i giovani addetti al governo del bestiame, e in particolare dei buoi. Ancora oggi, dall’Abruzzo alla Calabria, il termine gualano o alano, pur nelle diverse sfumature dialettali, sta a indicare il bifolco o bovaro. È così a Taranto, a Brindisi, a Lecce, a Bari, a Cosenza, come a Campobasso, a Chieti, a l’Aquila, a Pescara, cioè fino alle terre del ducato longobardo di Spoleto. 

Successivamente, nel catasto onciario di San Bartolomeo in Galdo, risalente al 1753, si leggono i nomi di numerosi gualani: erano al servizio di altri (con un contratto annuo che prevedeva un salario in denaro, più il vitto) o collaboravano con i loro padri massari. In genere lavoravano con l’esplicita qualifica di gualani e con la mansione specifica di custode dei buoi, accanto ai vaccari, ai giumentari, ai mulattieri, ai porcari, ai pecorai, ai garzoni ecc. Era, il loro, un mestiere duro: si levavano al primo chiarore dell’alba al comparire delle stella di Venere; accudivano i buoi da mattina a sera; attendevano a tutti i lavori, anche pericolosi (fa la mòrtë de lu alànë), nei quali ci si serviva di questi forti animali (aratura, trebbiatura, trasporto di materiale con i carri ecc.). A notte andavano a dormire nella mangiatoia con gli animali o nei fienili o nella cosiddetta cudazzë (paglia disposta sotto il tetto dell’ambiente o in un vano superiore della mässarìjë, in corrispondenza delle mangiatoie, nelle quali di giorno in giorno veniva calata attraverso una botola per il pasto degli animali bovini).

In merito, Domenico Petroccia in Alani e gualani nei gali longobardi del Sannio (in Samnium, 1969, a p. 125) afferma: «Per quanto se ne può dedurre dalle ultime testimonianze dirette, i gualani erano per lo più giovani adolescenti addetti al governo del bestiame. Non era certo un lavoro difficile, ma faticoso e qualche volta pericoloso, poiché cominciava alle primissime ore del giorno, per il rifornimento del foraggio e terminava con la pulizia delle stalle, dopo aver sorvegliato gli animali al pascolo o all’abbeveratoio». E poi, in nota, l’Autore continua: «Naturalmente qui si parla del lavoro affidato ai più giovani, ma le mansioni degli altri lavoratori erano diverse. Esisteva anche un capo-gualano, che aveva funzioni gerarchiche nei confronti dei dipendenti della masseria, poiché organizzava e controllava il lavoro rispondendone verso il massaro». All’uopo, ecco la sintesi di un contratto annuo di un lavoratore di San Bartolomeo in Galdo assunto come gualano l’8 settembre 1925: Prestazione: arare, governare gli animali, pulire le stalle, altri piccoli lavori. Compenso: vitto più alloggio (un rozzo giaciglio lëttérë  formato da un saccone di foglie di granturco steso su assicelle di legno disposte sopra la róllë dei porci, cioè sopra il porcile vero e proprio); al termine dell’anno un sacco di grano da un quintale e mezzo, un cappello ritinto e rifatto, lire 100, una pèzza di formaggio, una ricotta, la facoltà di dissodare e seminare a granoturco, per un anno, un mezzo etto di terreno messo a sua disposizione dal datore di lavoro. Ogni 15 giorni il gualano poteva recarsi a sera a casa sua per cambiare la biancheria personale.

Oltre ai gualani, in Valfortore, fino a pochi decenni or sono c’erano anche i cosiddetti ualanéddë, o meglio garzuncéddë, vale a dire fanciulli mandati dai propri genitori a padrone come garzoni, presso qualche coltivatore diretto, a condizioni assai misere. I più piccoli (dagli 8 ai 10 anni) aiutavano le donne nei lavori di casa: attingevano l’acqua dal pozzo, trasportavano la legna minuta per il camino, governavo i tacchini, i polli, i vitellini e agnellini non condotti al pascolo con il branco; a sera tûccaväno (spingevano) le pecore al punto fisso per la mungitura. Dormivano per lo più nelle mangiatoie. Le famiglie, presso le quali essi erano a padrone, pensavano al vestiario, del resto assai modesto: un paio di calzoni e un paio di camicie all’anno; una giacca e un paio di scarpe ogni due anni; qualche paia di calze e qualche maglia intima pesante (lavorate a mano con i ferri dalle donne anziane) per l’inverno.D’estate non cerano problemi: bastavano una camicia e un paio di calzoni (anche vecchi e rattoppati). A questi fanciulli non veniva corrisposta nessuna ricompensa. Veniva fatto per lo più qualche piccolo regalo in danaro, allorché, in occasione delle feste (una o due volte l’anno), tornavano al paese. Il contratto era sempre orale, veniva sancito da una stretta di mano tra il datore di lavoro e il padre de lu ualanéddë. Questo si verificava anche a San Bartolomeo, in piazza Garibaldi. I compiti più impegnativi erano affidati a giovani robusti: conducevano al pascolo le vacche o dedicavano la loro opera ad altro bestiame. E, a seconda del compito loro assegnato, venivano detti pecurare, purcare, crapare, vaccare, cavaddare, iumentare. Per essi c’era un certo contratto, sia pur diversificato secondo il lavoro.

Negli anni Cinquanta attraverso la lettura di alcuni articoli pubblicati sul Mondo ritroviamo i gualani a Benevento, dove essi venivano assunti in pieno mercato nella piazza del Duomo. Del caso si occupò anche lo statista Luigi Einaudi (primo Presidente della Repubblica Italiana eletto l’11 maggio 1948, secondo il dettato della Costituzione).

Da Lo scrittoio del Presidente (1948-1955) (Torino, 1956, pp. 590-596, Libro ottavo, IV. Sulla tratta degli alani e sui diversi effetti nel Sud e nel Nord dItalia) riporto un sunto di quanto scritto in data 26 novembre 1954: «Si dicono alani quei giovani di età per lo più inferiore ai ventanni, i quali nell’autunno sono allogati dai genitori come garzoni di campagna ed erano negoziati  sulle pubbliche piazze di talune città del mezzogiorno. Leggendo, l’impressione era che il malefico sociale e morale  derivasse  dalla circostanza che ragazzi di età dai dieci ai diciotto anni fossero portati in certi determinati giorni sulla pubblica piazza e lì negoziati fra genitori e mezzani come fossero una merce qualunque. Se non ricordo male, taluno degli articolisti rimproverò non so se un vescovo od un arcivescovo di non aver tempestivamente e vigorosamente denunciato quello che era detto ignobile mercato… È indubitato, a leggere le testimonianze di osservatori imparziali, che in talune province del mezzogiorno o delle isole i ragazzi dai dieci ai diciotto anni sono od erano  venduti dai genitori per un salario meschino sulle diecimila lire all’anno, ed in più soltanto scarso alimento e peggiore trattamento.Questo è certo un fatto negativo. Ma è altrettanto certo, e a me rincresce di non aver conservato un ritaglio di un giornale torinese il quale, forse un paio d’anni fa, ne faceva una brillante descrizione, che lo stesso mercato degli alani ha luogo nelle piazze ed osterie di alcuni borghi rurali della provincia di Cuneo…Su quei mercati in quelle osterie si negoziano  ragazzi i quali stanno tra i quindici e i venti-venticinque anni. Si negoziano come sul mercato si può negoziare un paio di buoi o un cavallo… Ma il salario oggi per i giovanotti sui ventanni si aggira sulle trecentomila lire l’anno e tende ad aumentare… Non pongo il dubbio che in quel di Benevento e vicinanze, i ragazzetti sui dieci-quindici anni siano assoggettati a fatiche inumane; sebbene nei miei paesi gli stessi ragazzetti, a quell’età, sono assoldati e pagati per condurre le pecore al pascolo; che è occasione gradita per congreghe di coetanei, giochi e scorrazzamenti alla ricerca delle pecore sbandate. I due mercati sono dunque identici, ma producono risultati completamenti diversi: salari di fame e mali trattamenti in un caso, compensi ragionevoli e possibilità di risparmio nell’altro caso. E perciò essi in qualità di mercati non possono essere considerati la causa di due risultati tanto diversi. Né il rimedio può essere cercato nella soppressione del mercato…Il problema degli alani non si risolve indignandosi contro il loro mercato; ma cercando di far venire meno le circostanze le quali vietano che il loro salario raggiunga il livello assai più alto toccato dai coetanei di altre regioni. Che se ciò accadesse, la maggior parte degli alani rimarrebbe a casa ed i successi dei pochi rimasti sarebbero descritti dai giornalisti meridionali cogli stessi giudizi festevoli che mi stanno nel ricordo di un pezzo di colore del giornale piemontese».

Come degna conclusione di questa mia breve ricerca, mi permetto di citare un appunto dell’insigne storico baselicese Fiorangelo Morrone (scomparso a Napoli nel luglio del 2007), che attraverso scritti e meticolose ricerche ci ha permesso di conoscere la storia della comunità e dell’intero territorio fortorino. Fiorangelo Morrone, S. Bartolomeo in Galdo, Immunità, Franchigie, Libertà,statuti. Arte Tipografica Napoli, 1994, p. 146: «Il capitolo 69 degli Statuti di S. Bartolomeo, relativo ai lavoratori gualani, stallieri e domestici, da un punto di vista etico-sociale mi sembra il più interessante di tutta la carta statutaria redatta dall’abate Nicola da Cerce. Ricco di spunti di una superiore saggezza antica, proveniente certamente da ambienti culturali di orizzonti piuttosto ampi di chiara ispirazione scolastica, se non addirittura tomistica, preannuncia, o per meglio dire precorre sorprendentemente termini e posizioni (giusta causa) fortemente sentiti nelle concezioni giuridiche dei secoli successivi e soprattutto nel moderno diritto del lavoro. È da notare infine come anche il meschino sotterfugio del lavoratore sia ritenuto passibile di punizione («il di più sia restituito ai precedenti padroni»)». 

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