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San Bartolomeo in Galdo
venerdì, 29 Marzo 2024

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San Bartolomeo in Galdo. Il Viaggio di una giornalista inglese dell’800. Com’era o com’è?

Pubblichiamo un articolo del prof. Salvatore Sgambato apparso su “Il Sannio Quotidiano” il 3 novembre 1996, introdotto da una sua breve nota biografica su Jessie White e una sinossi sul libro “La Miseria in Napoli” del 1877.

 

“Jessie Jane Meriton White (Portsouth, 9 maggio 1832 – Firenze, 5 marzo 1906) giornalista e scrittrice inglese, spesso chiamata Jessie White Mario dal cognome del coniuge Alberto Mario, è stata una patriota e filantropa inglese naturalizzata italiana.

Jessie White Mario è stata un importante personaggio del Risorgimento italiano e fu soprannominata “Miss Uragano” o la “Giovanna d’Arco” della causa italiana (quest’ultimo appellativo le fu dato da Giuseppe Mazzini).

Fu infermiera in quattro imprese con Garibaldi.

Pino Aprile autore di “Terroni” nel capitolo “Dispari opportunità” p. 114, che tratta dell’impresa garibaldina dei Mille, così scrive (da Alexandre Dumas alle donne, che daranno tutto alla causa, in ogni senso, e le saranno fedeli: Jessie White e una sua compagna si tolsero pure le mutande e ne fecero bende per i feriti, in uno scontro con gli austriaci, nel 1866).

Nel febbraio 1879 Giosué Carducci, criticando l’inoperosità della Sinistra Storica verso le classi più deboli, in quell’anno forza di Governo a sostegno di Depretis, scrisse: “La Democrazia conta un solo scrittore sociale: ed è inglese, ed è una donna; la signora Jessie Mario, che non manca mai dove ci sia da patire o da osare per una nobile causa”.

“La Miseria in Napoli” è la prima grande inchiesta nella storia del giornalismo italiano.

Inchiesta che Jessie White Mario, testimone e protagonista del Risorgimento “storiografa dell’apostolato mazziniano e dell’epopea garibaldina” svolse visitando ogni angolo di Napoli, passando al setaccio la società in tutti i suoi aspetti, descrivendo i bassi, i brefotrofi, gli ospizi, le carceri, popolati da un’umanità reietta, malata nel corpo e nello spirito, costretta dalla fame e dall’ignoranza alla prostituzione e alla criminalità.

 

 

San Bartolomeo in Galdo. Il viaggio di una giornalista inglese dell’800.

Com’era o com’è?

Con molta amarezza si scopre che i cambiamenti sociali sono più lenti del previsto. Una autentica “chicca” quella riportata dalla scrittrice e giornalista inglese Jessie White Mario che nel suo libro “La Miseria in Napoli”, parte quarta “Altri rimedi per Napoli” cap V “I contadini”, traccia uno spaccato di vita della nostra società di quell’epoca. La sua lettura, in chiave sociologica e politica, è ancora oggi di estrema attualità. La rivoluzionaria del Risorgimento scrive: “Ed io conchiuderò questa parte del mio lavoro, pubblicando la seguente descrizione, fattami in lettera privata da un ingegnere che per modestia non vuole essere nominato… “Ecco il testo:

Ho vissuto per qualche tempo a San Bartolomeo in Galdo, infelicissimo capoluogo del circondario, nella provincia di Benevento, situato nella parte montuosa della Puglia.
I contadini abitano nel borgo (perché malsana è l’aria della campagna) in casupole o meglio catapecchie, generalmente col solo pianterreno, senza camino e senza bagno, disposte in ripidissime e mal selciate strade sulla china del monte, ove si arriva con pericolosa ascesa.
La terra è eminentemente argillosa e perciò di più difficile e faticosa coltivazione. Ma per la miseria dei contadini, per ignoranza e negligenza dei proprietari la si lavora con un chiodo confitto nell’aratro tirato da muli e più spesso con la zappa. La coltivazione è così imperfetta che quel terreno rende quattro o cinque misure per una di semente, quantità di cereale incapace di rimunerare la fatica del contadino e soddisfare l’ozio del proprietario. Questa povera gente suda tutto l’anno, sia tempo buono o cattivo, e deve partire ogni mattina dalla propria casa dove ha potuto dormire, Dio sa come! fare un lungo tragitto, zappare tutto il giorno, e ritornarci, ed ancora non è terminata la via crucis perché bisogna provvedersi dell’acqua. Non vi sono pozzi di acqua potabile, ci è la fontana, cioè una ironia di fontana. Giacché fontana non si può chiamare, se esausta nell’estate e se nell’inverno essa spiccia acqua torbida. Ora il Municipio perché non provvede per l’acqua? Sarebbe non difficile condurre copiosa acqua mediante un tubo, ma il Municipio sta in mano dei signori e i signori hanno altro da pensare che all’acqua per la povera gente, questi possiedono le loro capienti cisterne che riempiono d’inverno. La povera gente paga il macinato e il dazio consumo e tribola per avere l’acqua. Orbene, l’inverno bisogna che questa si rassegni all’acqua torbida per bere e cucinare; nell’estate ci è poi il cisternone del Comune. Il quale però si apre in date ore, onde possiamo figurarci la folla e il tempo acciocché ciascuno ne attinga tutto il giorno. Negli anni di siccità l’acqua del cisternone finisce. Ed allora? Il condotto porta contemporaneamente l’acqua alla fontana pubblica e alla fontana del barone. D’estate viene sempre un filo d’acqua. Però il barone ha elaborato in tal modo la pendenza del canale, che quando l’acqua scarseggia fluisca tutta da lui. Con tutto ciò non vuolsi credere che la povera gente vada a pretendere per forza l’acqua del barone. Oibò! Essa è troppo rispettosa. Invece si veggonsi in questo caso quelle infelici donne appressare il labbro alla cannella della fontana oppure cacciarvi il dito dentro e ritirarlo e far uscire così un poco d’acqua che viene chiamata da quel poco di vuoto ottenuto e durare ore ed ore a questo supplizio per empire una conca. o tutt’al più avviene che si versi un meno sottile filo d’acqua, quando i servi del barone hanno l’avvertenza di chiudere i rubinetti e non mandano l’acqua come spesso fanno ad annaffiare i propri orti, o altrimenti quelle debbono adattarsi a lunghissimi tragitti per trovarne di bevibile. Avutala, bisogna cucinare qualche cosa, e questo qualche cosa consiste in foglie di rapa di cui si fa grande uso in quelle provincie e le chiamano broccoletti di rapa che condiscono col sale e qualche volta con un poco d’olio e di aglio soffritto. Della qual cosa e di pane e fagioli componesi generalmente il loro cibo. È materia di lusso il raro piatto di maccheroni condito col solo pomidoro. Dopo tante fatiche per mangiare così male eglino si coricano in camere affumicate e luride, stipati e spesso nella indispensabile compagnia del mulo e del maiale. Io non so davvero che cosa stia a fare al mondo certa gente. Forse per patire? O per nutrire chi vive d’ozio? Che attrattive può avere così la vita? Eppure sono buoni, docili, e non si lamentano. Si lasciano scorticare e baciano la mano dello scorticatore. E come sono scorticati!


Difatti prima del 1860 questa gente prendeva ad affitto i poderi dei galantuomini, pagando una quantità stabilita di cereali all’epoca della raccolta e quando andava a lavorare ad opera era rimunerata con due carlini, che corrisponderebbero a diciassette soldi (senza alcuna somministrazione di cibo). Venne il 1860 il prezzo del denaro decrebbe per equiparare a quello dell’estero o in altri termini i generi rincararono, inoltre tasse sempre più gravose s’imposero sui proprietari e sul popolo. Sembrerebbe che per questi fatti la mercede del contadino avrebbe dovuto crescere. Eppure no. L’affitto fu pagato con una maggiore quantità di grano, la mercede giornaliera rimase diciassette soldi. E tutto codesto perché? Perché il ricco non poteva diminuire la propria rendita e doveva rifarsi delle tasse aumentate diminuendo la mercede del contadino che perseverare nei diciassette soldi suona diminuzione di mercede, considerando che tutti i generi crebbero del doppio nel prezzo. Per fermo nessun miglior modo della testa china del povero, ignorante e senza spirito, per conservare la propria rendita, tanto più che così si evita qualunque fastidio, qualunque pensiero. Fastidi e pensieri necessari quando si fosse voluto provvedere invece allo sviluppo dell’agricoltura, al benessere proprio e contemporaneamente a quello dei contadini. Ma questa non è stata la via seguita perché le terre di San Bartolomeo rendono sempre quattro misure per una di semente, ad onta di tutte le fatiche e dei sudori e dei sacrifici di quei poveri e buoni contadini, veramente buoni nel senso più commiserabile della parola.
Ma tutto questo sarebbe un nonnulla. A San Bartolomeo non ci sono letteralmente strade rotabili né mercati di generi. Quindi il grano non si vende nel luogo, ma a Foggia e per trasportarlo ci vogliono robusti e numerosi muli. Pochi proprietari ne posseggono e eglino soltanto possono fare tutto il commercio. Per cui si costituisce da sé naturalmente un monopolio che costringe il povero contadino il quale debba vendere porzione del suo grano, a mettersi alla discrezione dei proprietari, arbitri del prezzo. E ciò se l’annata è buona, ma quando riesca avversa, il contadino cade davvero in piena balia dei proprietari che si trasformano in usurai e prestano una porzione del loro grano per riceverne il doppio alla futura raccolta. E mentre da una mano prestano da giudei, con l’altra fanno l’elemosina con sfarzosa ed avvilente e avara ostentazione. Soleva il barone del paese nell’inverno, ogni settimana distribuire due centesimi ad ogni povero che si recasse a questuare alla sua porta. Tanti travagli e l’aria malsana e l’acqua cattiva, sono fomiti di febbri e le febbri di fatto prostrano codesta popolazione e la annichilano giacché nelle malattie la miseria raddoppia. C’è un ospedale, ma quale schifezza. Non ci va mai nessuno, ne fuggirebbero anche i cani, perché peggiore di un canile. Non ci sono letti, ci è solo paglia a terra. Vi è un medico pagato dal Comune, esclusivamente per curare i poveri, mi pare con duecento lire l’anno. Ma non fa altro che ordinare chinino ed il chinino costa caro e non si può comprare da chi vive così male, e però le febbri li estenuano e li avviliscono sempre più finché la Madonna opera il miracolo di guarirli o mandarli all’altro mondo, che è meglio per loro, perché se guariscono rimangono sempre più soggetti a prendere altre febbri, nonché agli ingorghi di milza e vivono malaticci e deboli.
Eppure formano una popolazione di una certa intelligenza e di buonissima indole che meriterebbe di vivere meglio e lo meriterebbe certo più dell’infingardo lazzarone di Napoli. Non vi succede mai un furto questa gente vive di abnegazione.

Un paese senza radici e senza storia non ha futuro. E la storia non può rinunciare ad individuare le responsabilità, le colpe, gli errori che stanno a monte del malessere presente.

Una siffatta rinuncia equivarrebbe non solo all’accettazione, ma all’interazione in perpetuo dei mali che hanno prodotto tanti guasti nel nostro paese e ne hanno inquinato il tessuto urbano e la coscienza morale.

Prof. Salvatore Sgambato, 3 novembre 1996.

 

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