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giovedì, 28 Marzo 2024

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BRIGANTI NELLA VALFORTORE – Parte 1-

a cura di Paolo Angelo Furbesco

«Se vogliamo che tutto rimanga come è,
bisogna che tutto cambi.
Noi fummo i Gattopardi, i Leoni;
quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene;
e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore,
continuano a crederci il sale della terra».

 Il Gattopardo, 1958, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Secondo Domenico Iannantuoni e Francesco Antonio Cefali, autori di Perché briganti? (BookBaby), il brigantaggio fu «un ampio fenomeno misto di banditismo e di ribellione politico-sociale nelle campagne del Mezzogiorno. Fece seguito all’unificazione italiana che, con l’imposizione di misure amministrative e fiscali di particolare durezze, ivi comprese la completa abolizione dei secolari usi comuni delle terre a tutto vantaggio del latifondismo… dando esca… alla propaganda filo borbonica e clericale, ostile al nuovo stato liberale, a sua volta incapace di una politica che non fosse di pura repressione…».

Il termine  brigante – aggiungiamo noi – venne introdotto dai francesi: prima questi uomini venivano chiamati banditi o fuor banditi. I francesi usavano brigantage o brigand sin dal Quattrocento, riprendendo secondo alcuni una tradizione  gallica. Nel  1829 i linguisti italiani classificarono brigante come neologismo. Oggi li  chiameremmo “partigiani” o “terroristi”. Questo il loro giuramento: «Noi  giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intiero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno, di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi con il ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio. Difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il  nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati. Noi promettiamo anche con l’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi promettiamo e lo giuriamo». (Fonte: Marco Monnier, Notizie documenti sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbero 1862, pp. 73-74).

Prima di proseguire in questo racconto, desidero ringraziare – in ordine strettamente alfabetico – gli autori che con i loro scritti mi hanno aiutato ad affrontare questa complicata materia storica: Pino Aprile, Antonio Bianco, Fioravante Bosco, E. M. Cherch, Enrico Cocchi. Pietro Colletta, Angelo Coscia,  Benedetto Croce,  Mario D’Agostino, Donato D’Amico, Giambattista Desiderio, Gigi (Luigi) Di Fiore,  Emanuele Felice, Ferdinando Galiani, Antonio Gramsci, Giordano Bruno Guerri, Giuseppe Licandri, Giambattista Masciotta, Fiorangelo Morrone, Davide Fernando Panella, Antonio Serra, Marcello Veneziani, Gianni Vergineo, Pasquale Villani.
Trascrivo qui di seguito alcune loro citazioni:
Benedetto Croce (1866-1952), filosofo, storico, politico, critico letterato e scrittore,   principale ideologico del liberismo novecentesco italiano ed esponente del neo idealismo, affermò: «Il brigantaggio fu l’ultimo sostegno di una monarchia, quella borbonica, che ancora una volta aveva chiamato in suo aiuto o piuttosto a far le sue vendette, le rozze plebi e non trovando altri campioni che truci e osceni briganti».
Antonio Gramsci (1891-1937), politico, filosofo e giornalista, nel 1920 sulle pagine del giornale Ordine Nuovo scrisse: «Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri, che scrittori salariati tentarono d’infangare col marchio di briganti».
Marcello Veneziani (1955), giornalista e saggista, nello scritto La casta degli storici che non insegna nulla apparso su Il Giornale del 31 agosto 2010, lancia questa dura  accusa:
«Egregi storici di professione che liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare un’autocritica onesta e serena.
So che è difficile chiedere a molti di voi l’umiltà di rimettere in discussione le vostre pompose certezze  e il vostro sussiego da baroni universitari. Se oggi escono libri e libercoli a volte assai spericolati, poco documentati e rozzi nelle accuse, nostalgici del passato preunitario, lo dobbiamo anche a voi. Se nei libri di testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’università, se nei convegni e negli interventi su riviste e giornali, voi aveste scritto, studiato e documentati i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo punto. E invece quasi nessuno storico di professione e d’accademia, nessun istituto storico di vaglia ha mai sentito il dovere e la curiosità di indagare su quelle dicerie che ora brigate con sufficienza.
[…] Poi non si spiega perché tanta gente affolla e plaude i convegni sull’antirisorgimento a nord e a sud, e disprezza il Risorgimento, se un libro come Terroni di Primo Aprile sale in cima alle classifiche, se nessuno sa dare una spiegazione e una risposta adeguata alle accuse rivolte ai padri della patria.
[…] Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi scolastici e universitari o nei vostri interventi sui giornali, le pagine infami che seguono alla rivoluzione napoletana del 1799 con intere città messe a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzionari. Celebrate i collaborazionisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri, le città rase al suolo. Non è ideologia anche la vostra omertà?
[…] Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia come uno storico rituale, estraneo agli italiani, dominato dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi accorgete che lo diventa se continuate  con il vostro manierismo e le vostre omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana, quando eravamo davvero in pochi a difenderla.
Sono convinto che il processo unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto  coronamento di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e di una lingua antica. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare le sue pagine oscure pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne seguirono e lo sprofondare del Sud nei baratri della miseria della malavita e dell’immigrazione. Quella malavita organizzata  dette una mano ai garibaldini come poi agli sbarchi americani.
Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego pubblico e militare
Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per qualche decennio finale di parassitismo. Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora di costruire un’Italia condivisa e non dividere un’Italia già costruita».
E ora, dopo questa lunga citazione di Veneziani, iniziamo il nostro racconto.

L’antefatto

Il 7 agosto 1861, una banda di briganti capeggiata da Cosimo Giordano occupò  il paese di Pontelandolfo, in provincia di Benevento, nominando un governo provvisorio ed esponendo nel palazzo del Comune la bandiera borbonica. (Nativo di Cerreto Sannitico, Giordano verrà successivamente catturato a Genova, nel 1882; il 25 agosto 1884, la Corte d’Assise di Benevento lo condannerà  alla pena dei lavori forzati a vita. Morirà il 14 novembre 1888 nel carcere di Favignana).Una spedizione  composta da 45 militari dell’esercito del neonato Regno d’Italia si recò in perlustrazione nel paese sannitico, ma i banditi catturano i soldati, li  portarono  a Casalduni e lì li  trucidarono. (I due paesi distano poco meno di 4 chilometri; oggi la popolazione di Pontelandolfo  è di 2.126 abitanti, mentRe quella di Casalduni è di 1.378 residenti).  La ritorsione delle truppe piemontesi non si fece attendere, e fu tremenda. Il generale Enrico Cialdini (1811-1891) inviò un contingente di novecento bersaglieri, comandato  dal colonnello Pier Eleonoro Negri (1818-1887)  e dal maggiore Carlo Magno Melegari: «Desidero vivamente che di questi due paesi non rimanga più pietra su pietra», ordinò il generale. Il 14 agosto i bersaglieri misero a ferro e fuoco i due borghi massacrando soprattutto gli abitanti di Pontelandolfo (molti casaldunesi ebbero il tempo di fuggire prima dell’arrivo dei soldati). Il complesso musicale degli Stormy Six, nell’ormai lontano 1972, pubblicò un album dal titolo L’unità. Tra i brani del disco, spiccava la struggente ballata Pontelandolfo, ispirata da questo fatto storico, il cui testo riporto qui di seguito:

«Era il giorno della festa del patrono/
 e la gente se ne andava in processione/
 l’arciprete in testa ai suoi fedeli/
 predicava che il governo italiano era senza religione/
ed ecco da lontano/
un manipolo con la bandiera bianca/
che intima ad inneggiare a re Francesco/
ed ecco tutti quanti li a gridare/
poi si corre furibondi al municipio/
e si bruciano gli archivi/
e gli stemmi dei Savoia//
Pontelandolfo, la campana suona per te/
per tutta la tua gente/
per i vivi e gli ammazzati/
per le donne e i soldati/
per l’Italia e per il re//
Per  sedare i disordini nel paese/
arrivano quarantacinque soldati/
sventolando fazzoletti bianchi/
in segno di pace, ma non trovano nessuno/
poi mentre si preparano a mangiare/
il  rumore di colpi di fucile/
li  spinge ad uscire allo scoperto/
e son poi tutti quanti prigionieri/
poi  li portano legati sulla piazza/
e li ammazzano a sassate/
bastonate e fucilate//
Pontelandolfo la campana suona per te/
per tutta la tua gente/
per i vivi e gli ammazzati/
per le donne e i soldati/
per l’Italia e per il re/
la notizia arriva al comando/
e immediatamente il generale Cialdini/
ordina che di Pontelandolfo/
non rimanga pietra su pietra/
arrivano all’alba i bersaglieri/
e le case son tutte incendiate/
le dispense saccheggiate/
le donne violentate/
le porte della chiesa strappate, bruciate/
ma prima che un infame piemontese/
rimetta piede qui, lo giuro su mia madre/
dovrà passare sul mio corpo//
Pontelandolfo la campana suona per te/
per tutta la tua gente/per le donne e i soldati/
per l’Italia e per il re»//                                                        

PRIMA PARTE

                     BRIGANTAGGIO FINO AL 1860 

Siamo soliti associare il brigantaggio al processo dell’unificazione del nostro Paese. In realtà esso nasce e prospera nelle regioni meridionali, già ben prima dell’annessione del Mezzogiorno al Regno d’Italia, sviluppandosi ulteriormente negli anni Sessanta dell’Ottocento. Durante la breve Repubblica Napoletana, nel 1799, il calabrese cardinale Fabrizio Ruffo (1744-1827) costituì l’armata popolare della Santa Sede, creata per combattere i Francesi con lo scopo di ripristinare il Regno delle Due Sicilie (1816-1861), una formazione di volontari cui si aggregarono anche alcuni briganti tra i più famosi e feroci. Tra questi emergeva  Gaetano Mammone (1756-1802), all’anagrafe Gaetano Colletta, un feroce bandito di strada definito da Benedetto Croce «il terribile, il più efferato tra i capi realisti del 1799 (colui  che soleva adornare le mensa  dei suoi banchetti, in cambio dei fiori, di teste recise e sanguinanti di giacobini)»;  Colletta era seguito a ruota da Giuseppe Costantini (1758-1808) alias Sciabolone, da Michele Arcangelo Pezza (1771-1806) alias Fra Diavolo, da Nicola Gualtieri (1758-1808), alias Panedigrano,  da Gerardo Curcio (1762-1825), alias Sciarpa. Dalle nostre parti, nella cosiddetta “area fortorina”, operavano diverse bande: quelle di Filippo Ventresca, Matteo Fratta, Michele Tribuzio e dei  fratelli Vardarelli…Quella dei fratelli   Vardarelli è degna di nota, non solo per i tanti crimini perpetrati, ma perché  è stata l’unica banda “ingaggiata” dai Borboni per combattere tutte le altre. Era guidata dai fratelli Gaetano (1780-1818)) e Geremia (1782-1818) Meomartino, conosciuti come Vardarelli per via della tradizionale attività di famiglia, specializzata in barde e selle per muli e cavalli. Il padre era nativo di Celenza Valfortore, la madre di San Marco la Catola. Nel giro di pochi anni il loro gruppo divenne il più temuto di tutto il circondario della Daunia settentrionale, salendo così agli onori della cronaca nazionale. Ritengo che ripercorrere la loro storia possa essere utile per rievocare la vita di San Bartolomeo in Galdo in quegli anni: considerando i fatti di brigantaggio riconducibili a questa banda, possiamo affermare – concedendoci una certa dose di approssimazione e di fantasia – che  quasi tutti si svolsero nella nostra terra,  diciamo così all’estrema periferia Nord-Est della nostra comunità… in prossimità della località Marano. A romanzare i fatti non si fa peccato, ma aiuta a comprendere meglio i tempi che furono.

Premessa Il 6 luglio 1817, i componenti della banda Vardarelli e gli uomini di Domenico Furia, riuniti alla presenza delle maggiori autorità civili e militari della Capitanata, prestano giuramento di fedeltà allo Stato nella masseria di “Carignano”– lungo l’attuale strada statale Lucera-Campobasso, non distante da San Bartolomeo in Galdo, ndr – diventando armigeri del re in un corpo speciale, creato per combattere ladri, malavitosi e perturbatori dell’ordine pubblico. (Fonte: Il brigantaggio Dauno e la banda dei Vardarelli nel regno di Napoli di Angelo Coscia, giugno 2000, Ed. Sangiorgio, Campobasso). Fu così che, non riuscendo a debellare la banda Vardarelli con la gendarmeria e con l’esercito, il governo di Napoli aggirò l’ostacolo, ricorrendo all’astuzia… Un patto clamoroso, sancito dalla firma solenne di una convenzione tra briganti e amministratori, politici e militari. È l’esito di una lunga vicenda storica, che vogliamo ripercorrere dall’inizio: riavvolgiamo dunque il nastro fino alle origini, e arriviamo agli anni Ottanta del Settecento.   

                          Banditi, militari – briganti, cacciatori di teste 

Tre definizioni per descrivere il film della loro breve vita, che vi narrerò in tre capitoli. In merito,ecco le parole del grande storico Pietro Colletta (1775-1831), che  fotografano  in modo efficace la tragica vicenda dei fratelli celenzani e della loro banda. «Gaetano Meomartino, di servili natali, prima soldato, poi disertore dell’esercito di Murat, ricoverò in Sicilia…; e di là per nuovi delitti fuggendo, ritornato nel Regno, cercò salvezza non dal perdono o dal nascondersi, ma combattendo. Brigante felice in molti scontri, poi perseguitato vivamente, volse di nuovo a quell’isola … divenne sergente nella Guardia, e così ricomparve in Napoli nell’anno quindicesimo… disertò nell’anno istesso, e si diede a scorrere, pubblico ladro, le campagne. Prodigo ai poveri, avido e feroce coi ricchi, capo e tiranno, puniva i falli con pene asprissime; la codardia con la morte…Acquistò Vardarelli tanto nome di valore o fortuna, che ormai la plebe, scordando le nequizie, lo ammirava; e tanto più ch’ei davasi vanto (e forse lo era) di carbonaro». (Fonte: Storia del Reame di Napoli  dal 1753 al 1825,  Milano, Ed. Oliva, vol. II, pag.116). 

                                      Primo capitolo – Banditi      

Storicamente la presenza della banda Vardarelli sul palcoscenico del brigantaggio meridionale risale alla prima decade del 1800, quando irrompono nel Circondario di Celenza Valfortore, unendo diverse comitive di briganti, assaltando masserie e centri abitati. Gaetano Meomartino viveva a Castelnuovo della Daunia, quando  fu chiamato sotto le armi al servizio dei francesi: «Giovane ribelle, di torbido animo, indisciplinato,  manesco. Disertore, rinchiuso nelle carceri di Trani, riesce a fuggire con il fratello Geremia e con altri detenuti loro amici, verosimilmente nella seconda metà di luglio 1809. S’imbarcano (sul fiume Fortore, dalla località Torrefortore, ndr)  e riparano in Sicilia, dove la Corte borbonica accoglieva tutti i profughi continentali, senza indagare». (Fonte: Archivio di Stato di Foggia, Intendenza di Capitanata, Atti vari, 1813).Poco dopo, misteriosamente, rientra in quel di Celenza Valfortore per iniziare la sua  storia di  brigante, contro il nemico esercito francese. Per il popolo fortorino divenne il paladino del re, l’eroe che combatte i francesi «come fosse una rivalsa alle sconfitte degli eserciti europei», mentre per quello  napoletano rappresenta «la resistenza e il riscatto » prima, combattendo contro le truppe francesi, e dopo il 1815 contro quelle borboniche del regno di Napoli.Di seguito, in ordine cronologico, le prime incursioni della banda  raccolte  dagli  storici e riportate da siti internet specializzati nelle ricerche sul Brigantaggio.
11 agosto 1809 «I fratelli Vardarelli con una comitiva di oltre duecento briganti a cavallo, mettono a ferro e fuoco il Comune di Baselice, conseguendo un bottino di oltre diecimila ducati tra denaro, oggetti preziosi e merce varia. Durante l’incursione, uccidono per decapitazione i medici Damaso Petruccelli, di trentasei anni, Giuseppe Vetere, di anni trentasette e l’avvocato Pasquale De Matthia, di anni quarantatre. Per tutti, in ogni modo, resta sempre a monito la catastrofe di Baselice. Una violenza insolita perpetrata dai Vardarelli contro i civili». (Fonte: Fiorangelo Morrone, Storia di Baselice  e dell’alta  Valfortore, Arte Tipografica Napoli, 1993, p.164).
31 agosto 1809 «Una comitiva di duecento briganti  a cavallo, sotto il comando dei fratelli Vardarelli, di Michele Tribuzio e di Matteo Fratta, assalta il Comune di San Marco la Catola. In breve la cittadina viene messa a ferro e fuoco. I briganti lasciano sul campo trentatré  morti e ottanta feriti. Al  termine dell’invasione molte abitazioni risultano bruciate, e diversi cittadini uccisi». (Fonte: Donato D’Amico, Volto di un comune,Tipografia Adriatica, 1965 e Arch. di Stato Foggia, Anno 1809).
3 settembre 1809 «Agli ordini dei fratelli  Vardarelli e di Tribuzio, la stessa comitiva che aveva assaltata  San Marco la Catola, forte di circa duecentoquaranta (sic) briganti a cavallo, marcia alla volta di Celenza, ma non riescono ad entrare nell’abitato causa un violento fuoco di sbarramento da parte della guardia civica e dei volontari. Di fronte a tale resistenza i briganti a viva voce chiedono  una “semplice colazione e munizioni da guerra”, diversamente minacciano rovine più gravi  nei paesi che possono occupare e nelle campagne che possono attraversare. Per la pressione popolare, il giudice Cammisa insieme con le altre autorità locali, è costretto a tollerare che si mandi loro pane, formaggio e vino, dietro la promessa di abbandonare il borgo occupato. I briganti, delusi di non poter avere altro, prendono le strada per le Serre».(Fonte: Archivio di Stato di Foggia, Intendenza di Capitanata, carte varie, cartella 92, Anno 1809).
Un breve appunto Abbiamo letto che il  31 agosto, a San Marco la Catola, i briganti erano duecento;  nello scontro riportano trentatré  morti e ottanta feriti.  Il 3 settembre a Celenza erano duecentoquaranta. Qualcosa non quadra, perché tolto il numero totale delle perdite rimediate  a San Marco ci saremmo dovuti aspettare una “comitiva” di soli  ottantasette uomini.  Forse i feriti evidentemente avevano subito lievi conseguenze, e i trentatré morti erano stati subiti rimpiazzati con altri briganti…
11 marzo 1810 «I fratelli Vardarelli, forti di quaranta briganti per aver unito alla propria la comitiva di Lorenzo De Feo, beffando i posti di blocco ed eludendo tutti i controlli, raggiungono il mulino di San Marco, dove prelevano 10 tomoli di grano. Si recano, poi, alla Taverna di San Marco sita sul tratturo Castel di Sangro-Lucera, e vi sorprendono diversi passeggeri, che spogliano di tutto quello che hanno, compresi due barili di vino e alcuni tomoli d’orzo. Dopo quasi un’ora ripartono, dirigendosi lungo il fiume alla Taverna del Fortore, fra Celenza e Gambatesa». (Fonte: Archivio di Stato, Intendenza di Capitaneria, Atti vari, cartella 144, Fascicolo 15361, Anno 1810).
Nota Bene Colpisce il notevole calo del numero dei briganti che componevano  la famosa banda: forse, allora, i dubbi citati nella mia precedente nota coglievano nel segno. Dopo quest’ultima data, non si hanno più notizie che riguardino la banda dei fratelli Vardarelli.
Bisogna precisare (come si evince da «Archivio di Stato di Foggia, Anno 1810») che l’intendente Gelsi, in una lettera spedita il 10 maggio 1810 da Serracapriola, comunica  al ministro della Polizia l’imbarco del capo brigante Verdarello e dei suoi compagni dal litorale del Fortore, per riparare in Sicilia. A sua volta, invece, Vincenzo Russo (1770-1823), nel saggio Viaggio nel Molise, del 1812,  attesta che la stessa  comitiva  funestò la Valfortore e zone limitrofe fino al mese di novembre 1811. A ogni modo, indipendentemente dalle date discordanti, la famosa comitiva fece perdere la sue tracce scomparendo misteriosamente,  per la seconda volta,  per molto tempo. I surriferiti fatti, con frequenti scantonamenti nelle province del Molise e del Beneventano, contribuirono a far sì che il capobanda divenne per tutto il popolo una primula rossa, un uomo imprendibile.
All’uopo ecco il pensiero dello storico Gianbattista Masciotta: «Fra i suoi occulti protettori vi erano cittadini d’ogni classe, funzionari governativi, magistrati perfino, e quindi, o per spirito settario, o per tema, o per interesse, o per soldi, o per altri ignobili motivi, una fitta rete d’informazioni favoriva il bandito, tutti in gara a prevenirlo dei progetti e delle disposizioni dell’Autorità  costituita». (Fonte: Il  Molise dalle origini ai nostri giorni, Anno 1952). Il fenomeno del brigantaggio, presente nel Regno dalla seconda metà del XV secolo, ebbe una notevole impennata dopo l’occupazione francese del 1806, assumendo proporzioni tali da richiedere l’intervento dell’esercito. Tutto questo accadde perché Murat (1767-1815) dichiarò finito il brigantaggio e con esso decadute le leggi speciali per cui i delitti vennero condonati o ridotti. Il  brigante tornava a essere il delinquente abituale e con la restaurazione del 1815 Ferdinando dichiarava abolita l’azione penale nei loro confronti: la lotta al brigantaggio divenne una questione di reati comuni.
In questo contesto emergono, su tutti, due capi briganti: Gaetano Meomartino alias Vardarello (la nostra primula rossa, ndr) e il prete don Ciro Annnichiaro  (1775-1817) detto Papa Ciro o Papa Ggiru. «Diversissimi tra loro, rappresentano, tuttavia, molto bene  la fenomenologia di questa fase del brigantaggio politico. Guerrigliero il primo, fuggiasco il secondo: i due briganti hanno in comune la loro provenienza filo borbonica, sono stati entrambi carbonari e attuano un brigantaggio di tipo populista a favore dei contadini. Operavano in un ampio territorio tra Capitanata, Molise e Puglia. S’incontrano molto poco, agendo in maniera del tutto autonoma anche se entrambi  avevano, però, una forte componente popolare che spiega la simpatia e la solidarietà delle plebi rurali. Alla fine il governo scese a patti con il brigante Gaetano Meomartino. Con Annichiaro, il brigante prete, non si scese mai a patti, egli fu arrestato dopo due mesi di lotta e fucilato sulla piazza di Francavilla Fontana». (Fonte: Liceo Classico “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, ricerca coordinata dal professore Giuseppe Licandri).

                                          Sulle orme delle bande

Il territorio del Sub Appennino Settentrionale, in Capitanata, frazionato in agri come ad esempio Roseto, Alberona, Volturino, Volturara, Celenza, Motta Montecorvino, San Marco la Catola, Biccari e tanti altri ancora, «…offre un abitat  ideale ai malavitosi, poiché esso è caratterizzato dalla natura impervia dei luoghi e dai diversi boschi comunali, uniti in un unico corpo, dove i briganti trovano facili nascondigli, offerti da caverne scavate dall’uomo all’interno  di folta vegetazione per ricovero di animali, veri e propri meandri reconditi, nei quali le forze dell’ordine non osano inoltrarsi, temendo agguati mortali.[…] Un’attenzione maggiore è riservata alla zona fortorina. L’interesse scaturisce dal radicamento del brigantaggio zonale favorito sia dalla folta vegetazione del bosco, che all’epoca della vicenda copre vaste superfici di terreni demaniali e feudali e sia dalle simpatie della gente più legata alla monarchia borbonica e al movimento brigantesco, che combatte l’invasore francese. Tutto il territorio è segnato da estese superfici boschive, che dall’alto delle vette montuose si distendono lungo le impervie gole vallive fino al greto dei fiumi e torrenti, fondendosi in unico bosco, pur appartenendo giuridicamente agli agri dei vari comuni confinanti. L’intera zona è soggetta alle incursioni di briganti, organizzati in comitive. I ricchi  proprietari subiscono ricatti, inoltrati per mezzo di curatoli e garzoni delle loro masserie. […] Sul territorio esistono punti comuni d’incontro delle comitive, solitamente in prossimità di grotte o di incroci. A valle si ricorda la Taverna di Celenza, sulla sponda destra del fiume Fortore, in prossimità del Ponte Tredici Archi, la Taverna di San Marco, sul tratturo Castel di Sangro-Lucera, a circa un miglio dal relativo centro abitato, il Sente, in prossimità  della gola montana che dal Fortore s’inerpica fino a Monte Sambuco tra il confine dell’agro di Carlantino e quello di Casalnuovo Monterotaro e il Monastero di Dragonara nel bosco di Torremaggiore. A monte sono frequenti  i loro incontri in  località I tre confini a quota 860, nel bosco che segna i confini con l’agro di Celenza, San Marco, Pietra Montecorvino e in contrada Cerroscritto, dove passa la strada per San Severo, sede della Sottintendenza. Sul versante molisano i briganti operano ricatti negli agri di Ururi, San Martino in Pensilis, Santa Croce di Magliano, Colletorto, Gambatesa, Tufara, Toro, Jelsi, Riccia, Colle Sannita, spingendosi fino a Castelpagano e Circello. Spesso, però, essi si spostano anche in Campania, dove sono teatro delle loro razzie, Castelverete, Baselice, Foiano, San Bartolomeo in Galdo, uniti nella vallata del medio e alto Fortore». (Fonte: Angelo Coscia, ibidem).

                           Notizie flash su San Bartolomeo in Galdo

19 marzo 1808 «Salvatore Nicastro si trovava in quel di Casalnuovo con i suoi fanti, quando riceve l’ordine dal tenente Crisci di recarsi con il suo distaccamento in San Bartolomeo in Galdo, passando per Celenza. Il sergente Nicastro in paese apprende del tentativo dei briganti di entrare in Celenza e come la guardia civica li abbia respinti, ingaggiando una violenta sparatoria e costringendoli a fuggire per la campagna, dove, si suppone, continuino a vagare in comitiva; riceve anche informazioni sui briganti feriti, che, sembra, si trovino in agro di San Marco la Catola. Riprendendo il cammino per San Bartolomeo in Galdo, Salvatore Nicastro decide di passare per San Marco la Catola. Lungo il percorso ispeziona masserie, casotti e pagliai, continuando a dare la caccia ai banditi feriti. La  sua costanza è coronata da successo, perché durante la perlustrazione  egli riesce a sorprendere i due briganti Giovanni Milo e Giovanni Ieronimo, feriti nell’assalto nell’abitazione Iosa di Carlantino. In attuazione delle disposizioni marziali contro il brigantaggio, egli esegue all’atto la fucilazione dei due briganti e in San Marco si presenta al luogotenente Cognetti con le lo teste recise, che sono esposte al pubblico ludibrio, come monito di quello che succede ai rivoltosi». (Fonte: Arch. di Stato di Foggia, Intendenza di Capitanata, Cartella 43, Fascicolo 3572, Anno 1908).
16 aprila 1808 «…Dopo il tramonto del sole, dei briganti si fanno vedere a circa mezzo miglio da Celenza; molti trascorrono la nottata senza dormire, o perché di pattuglia, o per contribuire a  respingere l’attacco nel caso essi tentino l’ingresso in paese.
In seguito all’andirivieni dei briganti, il luogotenente Cognetti in un incontro con il generale Lucio Caracciolo (1771-1833) – duca di Roccaroma – ndr, che per l’occasione si trova in San Bartolomeo in Galdo, altra piazza calda del brigantaggio zonale, chiede lo stanziamento di una parte di truppa di Linea a San Marco la Catola. La richiesta è accolta solo parzialmente, perché a garantire l’ordine in San Marco, è inviato temporaneamente il colonnello Valiante, a capo di una squadriglia di cinquanta legionari …».
4 luglio 1814 «… Alle due comitive di De Santis e  De Nigris, che percorrono la Valfortore dalla parte di San Bartolomeo in Galdo, si aggiungono i così detti cittadini pacifici di San Marco dei Cavoti, per lo più pecorai, bovari e paesani facinorosi, che custodiscono in campagna le armi usate, per saccheggiare i procacci, sull’esempio dei briganti di Orsara, Panni e Bovino. Il loro comportamento, veramente riprovevole, è segnato da continue ruberie, che diffondono molta povertà tra la popolazione e disagio fra le autorità, che non riescono a arginare il fenomeno».
24 settembre 1815 «…L’Intendente invia una lettera circolare ai sindaci e giudici di pace della provincia con la quale si chiede i nominativi di tutti gli amnistiati che hanno usufruito del decreto settembre 1808. Rispondono il Sindaco di Manfredonia, quello di Bonino, quello di  Stornarella, quello di Casal Trinità, quello di Cerignola; ma tutti negativamente, poiché presso i rispettivi Comuni non esiste alcun elenco di persone che nella passata occupazione militare siano stati ammessi ad amnistia con rilascio di salvacondotto.
Si differenzia solo la risposta  del Sindaco di San Bartolomeo in Galdo, il quale  rileva dall’archivio che hanno ottenuto il salvacondotto dall’incaricato di Alta Polizia Valiante i concittadini Ferdinando  Del Buono e Antonio Petta». (Fonte: Arch. di Stato di Foggia, Intendenza, Governo e Prefettura; Atti di Polizia, serie I, fascio 8, Fascicolo 356, Anno 1815).

                        Secondo capitolo – militari e banditi     

Ci siamo lasciati con la fuga dei Vardarelli diretti  in Sicilia. A Palermo, presso la corte di Ferdinando IV, vengono arruolati nella 2.a Compagnia del 1º Battaglione del Reggimento Regio Palermo, facente parte della Divisione Militare Brigata di Salerno. Da graduati  dell’esercito, vi rimangono fino al 14 maggio 1814.                    
15 maggio 1815 «I fratelli  Meomartino rientrano dal regno di Napoli, e come tutti i militari provenienti dalla Sicilia, sono promossi di uno o due gradi con il titolo di guardia reali. Gli ufficiali e i soldati superstiti dell’esercito murattiano, sono radunati a Salerno e smistati in reggimenti borbonici. Il governo dell’esercito è affidato a quattro generali, due di parte borbonica e altrettanti d’estrazione murattiana, nell’inversione dei ruoli, poiché i primi difendono i soldati della controparte e viceversa».(Fonte: Pietro Colletta, ibidem).
Le cronache ci riferiscono che per sei mesi i fratelli vivono il riordino dell’esercito e del governo più che l’ebbrezza del rientro. Non sappiamo se ufficiali e soldati murattiani entrino a far parte del loro reggimento. Un fatto, però, è certo. Il ritorno alla pratica del brigantaggio scaturisce dal disagio della loro condizione. «La contestazione questa volta è contro l’apparato borbonico e il suo legittimo rappresentante. La fusione tra il nuovo e il vecchio corso, evidentemente o riesce male, o non è condivisa dai fratelli. All’inizio del 1816 essi abbandonano l’esercito e la carriera militare e si danno nuovamente al brigantaggio. La nuova comitiva di briganti consta di 9 uomini a cavallo». (Fonte: Angelo Coscia, ibidem).

Nota Bene: A mio parere il Meomartino fu forse convinto da quelli che oggi chiameremmo “poteri forti”, che gli assicurano la loro protezione. Se non erro, alcuni storici hanno riferito che era carbonaro, dato che potrebbe avvalorare la mia ipotesi.  Neanche il tempo di fumarsi una sigaretta, a pochi giorni dalla fuga da Napoli, ed ecco  di nuovo in campo la nostra primula rossa.
9 gennaio 1816 «La comitiva dei Vardarelli, ricompare per la prima volta a circa  tre miglia dall’agro di Serracapriola in contrada Pagliero mentre il carrettiere  Francesco Pignolo transita in luogo su  un  carro agricolo che trasporta un cavallo baio di quattro o cinque anni, e un morello più anziano. Improvvisamente un brigante  lo affianca e gli ordina di togliere dal timone il cavallo baio, che a suo dire, serviva a don Gaetano Vardarello. Essendo i Vardarelli dei briganti molto rinomati, il Pignolo non oppone alcuna resistenza e consegna il cavallo al capo brigante, che subito lo cavalca  e si allontana con il resto della comitiva, dirigendosi verso i Pontoni  di San Martino. Il caso giudiziario si chiude con l’imputazione del reato per furto del cavallo, ai fratelli Vardarelli». (Fonte: Archivio di Stato di Campobasso, Brigantaggio, Busta ,41, fasc. 1, Anno 1816).
17 gennaio 1816 «La banda dei Vardarelli,  formata dai nove briganti a cavallo, armati  con fucili, baionette, giberne e bastoni,  si presenta alla masseria di campo di Tertiveri. Con le solite minacce i banditi pretendono la merenda per loro e la biada per i cavalli e , dopo aver cenato, si allontanano portandosi un baio scuro, guarnito di sella e briglie. Il caso si chiude con l’imputazione del furto a carico della comitiva dei fratelli  Meomartino». (Fonte: Archivio di Stato di Lucera, Processi Politici, Fasc. 20, Foglio 262, Anno 1816).
22 gennaio 1816 «La notte verso le ore 22,00, la banda dei Vardarelli assale la  masseria di Francesco Paolo Cassitto in contrada Le Maitine di Alberona. Entrano nove individui armati di tutto punto; si portano dietro, legato con funi, il maresciallo Galli delle brigata dei gendarmi di Trani. Consumato la cena due briganti montano di sentinella, gli altri si mettono a  dormire e si trattengono  nella masseria per tutto il giorno 23. Verso le ore 16 sopraggiunge un altro brigante armato di fucile e giberna e saluta i fratelli Vardarelli con un festoso abbraccio. Verso le 9 del giorno 24 i dieci briganti a cavallo vanno via, portandosi prigioniero il maresciallo Galli; s’incamminano per il tratturo non molto distante dal fabbricato. Non si sa che fine faccia il Maresciallo Galli, ma non è l’unico ad essere catturato dai banditi». (Fonte: Lucera Arch. di Stato, Processi Politici, Fasc. 20, Foglio 369, Anno 1816).
9 febbraio 1816 La comitiva dei Vardarelli s’insedia nuovamente nella masseria  di Francesco Paolo Cassitto e vi permane per alcuni giorni. La notte del 10 febbraio, tre individui  della comitiva penetrano nella  vacchereccia di Luigi Forchini, derubano i garzoni ed inviano anche un ricatto di trecento ducati al loro padrone. La colonna mobile dei gendarmi ausiliari verso le 23,00 del 12 febbraio, giunge in prossimità della citata masseria e, notando le loro tracce per  cavalli senza briglia, che sostano intorno al fabbricato, assedia la masseria. Ne nasce un conflitto a fuoco. Durante la sparatoria, durata circa mezz’ora, i briganti feriscono con una fucilata il tenente Perroncelli, che cade prigioniero nelle loro mani; lo legano e lo rinchiudono in una camera della masseria. La notte, verso l’1,00, essi se ne ripartono, portandosi dietro l’ostaggio». (Fonte: Archivio di Stato di Lucera, Processi Politici, Fascicolo, 20, Foglio 371, Anno 1816).
19 marzo 1816 «La banda dei Vardarelli assalta la masseria del marchese Vacca, in agro di Campodipietra, custodita da Nicola Lariccia.  Sono undici briganti. Rimangono nella stalla tutta la notte. Dopo le 24,00, … su ordine dei banditi, barda i muli, consegna il migliore al brigante a piedi, sull’altro carica una loro bisaccia, contenente pane, prosciutto, caciocavallo e formaggio e tutti insieme s’avviano per il tratturo Castel di Sangro-Lucera. Gaetano Meomartino gli ordina di guidarli verso la piana di Sepino. Egli risponde che non è pratico di quella zona. Allora il brigante  gli impose di guidarli verso Ielsi. Giunti presso un gruppo di masserie in agro Campodipietra, la comitiva decide di fermarsi. Riescono ad entrare in quella di Francescoantonio Carlone e vi si trattengono  per oltre tre ore. Scassano le porte di altre tre masserie estromettendo  dalle stalle i buoi, che scacciano in aperta campagna, e ricettano  i loro cavalli, parte nella stessa e il resto nelle altre; poi li governano, prelevando dai gratali un mezzo carro di fieno, che distribuiscono  nelle mangiatoie, senza parsimonia. Riprendono la strada per Jelsi dirigendosi poi sulla montagna di Gildone, ma prima di inoltrarsi nel bosco, liberano Nicola Lariccia restituendogli anche i muli». (Fonte: Archivio di Stato di Campobasso, Busta 41, Fascicolo 1, Anno 1816).
20 marzo 1816 «Verso le 6,00  Michele Prete,  da Circello parte per Campobasso con un vetturino del luogo – tal Saverio Finelli –  prima di rientrare in Riccia. Nel bosco Santangelo di Castelpagano, e propriamente al confine tra Santa Croce di Morcone e Sant’Angelo, undici briganti della comitiva Vardarelli li assalgono. Al Prete rubano cinquantacinque ducati, un cappotto, un vestito nuovo di panno d’Arpino, appena comprato, un fazzoletto bianco per la gola e un altro di colore …». (Fonte: Archivio di Stato Campobasso, Brigantaggio, Busta 33, Fascicolo 3, Anno 1816).
21 marzo 1816 «Verso le ore 19,30 la banda dei fratelli Meomartino  mentre passa in prossimità del bosco Lo Sterparo, in agro Castelfranco,  sequestrano tre giovani donne e due pastori minorenni. Verso le 20,00 tutti insieme si fermano alla masseria in contrada Le Cese, ove trovano il massaro Cesare Verrillo. Verso l’1,00  lo autorizzano   a recarsi in paese per prendere le scorte alimentari per la colazione e l’orzo per i cavalli. Questi, giunto in luogo si reca direttamente dal sindaco e denuncia il fatto. Scattano le misure di  pubblica sicurezza. Il tenente Barbarisi e la guardia generale Pacilli, radunano molta gente armate e organizzano posti di blocco, in speciale   modo in prossimità  del bosco Vetroscello. All’alba, i briganti se ne ripartono scomparendo proprio in direzione del citato bosco, beffando la mobilitazione della guardia civica e della colonna mobile. Le donne e i due pastori rientrano alle abitazioni, quando già è giorno». (Fonte: Archivio di Stato Lucera, Processi Politici, Fascicolo 20, foglio 373, Anno 1816).
Nel frattempo i briganti diventano sempre più  arditi, colpiscono indistintamente sia i garzoni sia i proprietari, seminando terrore soprattutto  tra la popolazione rurale, seguendo una tattica “mordi e fuggi”. In altre parole: compiono assalti, derubano,   chiedono  riscatti e si dileguano avendo cura di non  lasciare tracce, facendosi così  beffa dei  posti di blocco predisposti  dalle autorità.
9 luglio 1816 «La banda dei Vardarelli si presenta sull’aia  della masseria  Ripalta  in agro Serracapriola, sparando all’impazzata colpiscono a morte Costantino Scamazzo e feriscono gravemente alla coscia sinistra Nicandro Piacentini, poi devastano le suppellettili nella masseria e appiccano il fuoco alle biche sull’aia stimate in quattromila tomoli di grano ed orzo». (Fonte: Archivio di Stato di Lucera, Processi Politici, Fasc. 19, p.345, Anno 1816).
16 luglio 1816 «La comitiva Vardarelli si trova in agro di Guglionesi nella bofolina del duca di Celenza. Qui essa sequestra Andrea Minicone, custode del bosco Selvapiana nel Comune di Larino. Si sposta in agro di Portocannone alla masseria di Giacomo Tanassi. La notte verso le 1,00, appiccano il fuoco alle biche di grano sull’aia e si recano al di là del Cigno, in agro di San Martino, in contrada Le mure di San Biase, dove verso le 2,00, uccidono barbaramente l’ostaggio con replicati colpi di fucile e baionetta». (Fonte: Archivio di Stato di Campobasso, Processi Politici, Busta 43, Fascicolo 1, Anno 1816).
5 agosto 1816 «La comitiva  Vardarelli forte di ventiquattro uomini a cavallo (ricordate, siamo partiti con 9 uomini, ndr) si trova in agro di Baselice  ed attacca la masseria sita in contrada Campo grande di proprietà di Luigi Petruccelli, compiendo gravi danni: feriscono mortalmente otto buoi e una giovenca a colpi di baionetta, altri entrano nella masseria e rompono gli utensili e le attrezzature che vi trovano. Tutti insieme scompongono i covoni e dai cavalli fanno calpestare l’avena, un danno di oltre settanta ducati. L’istruttoria si chiude con l’imputazione  dei reati alla comitiva dei fratelli Meomartino». (Fonte: Archivio di Stato di Campobasso, Brigantaggio, Busta 33, Fascicolo 3, Anno 1816).

                                            Fuga fuori… porta

L’escalation dei Vardarelli sembra inarrestabile. Diventano sempre più spregiudicati, sembra impossibile scovarli. Con l’entrata in campo di squadre speciali organizzate   dai  sindaci di 14 paesi del circondario, composte da 30 uomini, la banda è però costretta a riparare in Basilicata e nel Barese, in attesa di tempi (per loro) migliori. Dopo circa quattro mesi, la banda viene intercettata nei pressi di Spinazzola, in  provincia di Bari. È qui che avviene un fatto molto doloroso per la famiglia Meomartino.
6 dicembre 1816 «In agro di Andria presso Castel del Monte la comitiva dei Vardarelli viene intercettata da una colonna mobile guidata dal maggiore Corsi. Lo scontro inevitabile si protrae per circa cinque ore. Durante il combattimento i briganti sono costretti a ripiegare lasciando sul terreno Anna Antonia Meomartino, che, vestita da uomo, divide la sorte dei fratelli, combattendo con pari valore e destrezza. Il fratello Gaetano, non potendola trasbordare, perché ferita mortalmente, la uccide, per impedire che ella cada nelle mani dei soldati». (Fonte: E.M. Cherch, Brigantaggio e Società segrete nelle Puglie, Firenze, Anno 1899, p.114).

                                Rientro in Capitanata 

Per la disparità delle forze in campo i briganti cercano scampo nella fuga riuscendo – non  si sa come – a  rientrare in Capitanata  attraversando  il bosco di Monte Leone in località Lamelunga. Tre giorni dopo, infatti, la banda ricompare tra le nostre terre. Viene segnalata  il 9 dicembre nei pressi della masseria  Nannarone di Foggia, il 12  nella masseria Torretta di proprietà di Luigi Zezza e nella masseria Martellito in Ascoli Satriano, il 18 dalle parti di Dragonara, il 19 nei pressi di  Baselice,  il 20  in contrada Piano dell’Olmo nelle vicinanze di Castelvetere, il 29 dicembre nei pressi della masseria di Palino in agro di Sant’Agata nel circondario di Deliceto, il 30 in agro di Roseto presso il bosco Vetruscelli.
30 dicembre 1816 «Verso le ore 8,00, la comitiva dei Vardarelli, composta da circa venti persone, giunge in agro di Orsara, nella masseria in contrada Magliano, dove i fratelli Rosati di Troia tengono le pecore; vi trovano il curatolo Giuseppe Riccio e il personale addetto degli armenti. Appena entrati i Vardarelli fanno contare tutti i pastori e gli altri individui che sono nella masseria, annotando il nome di ognuno; mettono poi, una sentinella alla porta, vietando che alcuno possa uscire e fanno approntare una lauta colazione, cucinando una pecora, appena uccisa. Verso le 24,00, abbandonata la masseria, la comitiva attraversa il Serrone che conduce al bosco di Giardinetto, passa per Tremoleto e giunge a Deliceto; si suppone voglia trasferirsi in Basilicata o in provincia di Bari. Verso le 2,00, i briganti Vardarelli raggiungono la masseria La Lamia, in agro di Castelluccio dei Sauri; dopo un’ora e mezzo circa,  se ne vanno per il tratturo di Ascoli Satriano. Alle 5,00 del 31 dicembre la comitiva giunge nella masseria  Il Palazzo di Ascoli, di proprietà del marchese Rinnuccini, distante circa tre miglia dall’abitato. Dopo aver forzato la porta della dispensa, i briganti prendono pane e altri viveri per loro e da un cassone le razioni di ave per diciotto cavalli; poi si rifocillano se ne ripartono, portandosi via dalla stalla due cavalli….Nel frattempo, alle 7,00, alle 12,00 altri banditi assalgono diverse masserie e verso le 21,00 nelle vicinanze dell’Ofanto, un’altra comitiva di briganti armati assalta la vacchereccia  di Giuseppe  Pignatario  di Cerignola, in contrada “San Leonardo” avvengono  altri fatti. Questi fatti creano due diverse opinioni: mentre rapporti di diverse autorità locali affermano che la comitiva dei Vardarelli è estranea in quanto  essa, dai boschi di Stella Dragonara, si è trasferita nei pressi di San Bartolomeo in Galdo, l’Intendente di Foggia reputa le scorribande  lungo la vallata dell’Ofanto frutto dei Vardarelli e dei superstiti della squadriglia di Giuseppe Furia, divisi in due squadre, operanti una nell’alta e l’altra nella bassa vallata dell’Ofanto». (Fonte: Angelo Coscia, ibidem).

                Anno 1817, gli ultimi mesi dei fratelli Meomartino 

Anno nuovo, vecchi problemi. Di seguito, un breve sunto degli avvenimenti accaduti durante la prima settimana del 1817.
1º Gennaio 1817 «In mattinata il sottointendente di Bovino  segnala la comparsa della comitiva Vardarelli nel Distretto. La sera – formata da ventiquattro briganti armati ed a cavallo –  ricompare  di nuovo nella masseria Torretta, dove s’intrattiene fino alle ore 6,00 del giorno successivo, quando ne riparte. La mattina del 2 gennaio transita in Ascoli Satriano una colonna mobile del comandante Capofredda; questi da un giudice di pace apprende che la comitiva dei Vardarelli si è trasferita in Basilicata. Sulle tracce dei Vardarelli, verso le ore 15,00, giunge  in luogo anche il sottotenente Rubertis della Cavalleria, che, dopo avere preso due ore di riposo per i suoi uomini, intende inseguire la comitiva in Basilicata, unitamente alla colonna mobile del Capofredda. L’autorizzazione da parte del colonnello del Carte è recapitata loro il giorno successivo ( 3 gennaio, ndr). Riprendono quindi l’inseguimento. Nel frattempo, il 6 gennaio viene creato un cordone lungo tutta la linea dell’Ofanto, con truppe di Linea del Reggimento di Fanteria Regina, suddivise in distaccamenti di quaranta unità, in formazione pura, o mista con i legionari delle civiche zonali distaccamenti di soldati, legionari, sotto il comando del maggiore Rosselli. Il piano di sbarramento è illustrato agli ufficiali dei distaccamenti (tenente cavaliere Marteni, tenete Sossi, capitano cavaliere Anselmi, capitano Manes, tenete D’Andola, tenente Pertasa, capitano   Consalvi),  che ricevono la raccomandazione di pattugliare le aree  di pertinenza fino al centro dei posti laterali, alternando per turnazione metà distaccamento per volta giorno e notte. «La  masnada dei Vardarelli si è trasferita in Basilicata, senza che se ne sappia più niente», questo ebbe a dichiarare l’Intendente di Foggia, al termine della lunga giornata». (Fonte: Angelo Coscia, ibidem).
In Capitanata, la notizia che la comitiva dei Vardarelli è riparata fuori provincia viene accolta con somma gioia. Tutti auspicano  che lo sbarramento eretto dal colonnello  del Carte lungo l’Ofanto li tenga lontano per molto tempo. Purtroppo l’euforia dura poco;  nonostante il grande spiegamento delle forze preposte per la cattura, la nostra Primula Rossa rientra in Capitanata. Il mistero continua, nessun  storico è stato in  grado di svelarlo. C’entra per caso “la forza dei poteri forti”?  Vuoi vedere che è stato tutto un bluff, e che gli uomini  della banda sono sempre in Capitanata, nascosti da tutti? I banditi, infatti, vengono segnalati in agro di Biccari, prima nella masseria di Santa Maria in Vulgano ed il giorno successivo in quella di De Peppo di Lucera. Quest’ultima segnalazione corrisponde al vero, ma da come si sono svolti i fatti qualcosa non quadra. Vediamo che cosa.
19 gennaio 1817 «Nella masseria De Peppo, i briganti si stanno tranquillamente divertendo, mentre i loro cavalli senza briglie brucano l’erba sull’aia, segno evidente che essi non hanno avuto alcuna soffiata. Sul posto il tenente Gambone appronta la strategia di attacco; fa appostare i fucilieri e i legionari municipali sul lato sinistro del fabbricato, mentre egli con la cavalleria si apposta a destra. Verso le 19,00, i legionari con i fucilieri attaccano, battendosi con grande coraggio; dal loro opposto i briganti sorprendono quattro soldati della cavalleria e li fanno prigionieri; in seguito a questa vicenda i loro commilitoni si danno a vergognosa fuga, senza sparare un colpo. Nello scontro muore un fante e un legionario municipale mentre altri tre militari riportano gravi ferite. Alla fine i briganti riuscirono a scappare in direzione del bosco di Tertiveri». (Fonte: Archivio di Stato di Foggia, Intendenza, Governo, Prefettura, Atti di Polizia, Serie I, Busta 10, Fascicolo 379, Anno 1817).
Questa vergognosa fuga da parte di diversi commilitoni, lasciò l’amaro in bocca al colonnello del Carte, che si mise troppo tardi (con una colonna di quaranta cavalieri e trenta fanti) alla disperata ricerca dei banditi, dileguatisi  nel bosco. Nel fare il  rapporto, egli informa così l’Intendente: «Lo scontro avrebbe avuto esito diverso, se soldati e legionari avessero combattuto con più accanimento, ma avviliti dalla vista  di due commilitoni uccisi, tre feriti e quattro prigionieri, hanno combattuto con più prudenza, dando possibilità ai briganti di fuggire a briglie sciolte, sottraendosi al conflitto».
Dal 20 gennaio in poi  fu  un susseguirsi di dispacci, lettere e telegrammi tra i vari organi  preposti:  l’Intendente di Foggia, il Ministero della Polizia, il giudice di San Paolo Civitate, il sindaco di Foggia, il generale Luigi Henry, il sottintendente Patroni, il maggiore Rota, fino ad arrivare al sottintendente di San Severo, che ebbe a dire:«Sono stato un semplice esecutore di ordini del colonnello del Carte, al quale ho creduto di dover obbedire, quale autorità rivestita di alti poteri». (Fonte: Archivio di Stato Foggia Atti di Polizia, ibidem).
La  conclusione?  A fine gennaio, l’unico a pagare le conseguenze fu il colonnello del Carte (avevate forse qualche dubbio in merito?, ndr), che viene destituito dalla sua funzione di commissario del re. Al colonnello viene attribuito il fallimento della linea difensiva posta lungo il fiume Ofanto, con conseguente rientro della comitiva dei Vardarelli, e l’esito negativo dello scontro avvenuto nella masseria del signor De Peppo, nei pressi di Lucera, il 19 gennaio 1887.
In merito, riporto il contenuto di un dispaccio pervenuto all’Intendente di Foggia da parte del Ministero della Polizia: «Ella mi assicura col suo rapporto del 18 corrente che non mancherà  di attendere più oltre le sue vedute per conoscere se effettivamente i Vardarelli hanno delle protezioni in questa Provincia che mi informerà. Dopo molti mesi che gli stessi scorrono la campagna, commettendo i più gravi eccessi, è strano che non si sia fatto nulla di positivo per accertarsi di ciò e che il Ministero non abbia ad avere come risultati che delle assicurazioni vaghe e spesso ripetitive che non mancherà di occuparsene…Se l’inconveniente deriva dalla poca attività ed energia dei dipendenti, bisogna denunciarli al Governo, poiché  è l’Intendente  responsabile agli occhi del Re di tutto ciò che avviene in Provincia». Più chiaro di così!                                  A fine gennaio 1817, il colonnello Mari, già commissario del re contro i briganti nei Distretti di Nola, Piedimonte e Gaeta, viene trasferito  con le stesse funzioni in Capitanata, in sostituzione del colonnello del Carte. Pochi mesi dopo avviene un fatto molto grave che è opportuno  riportare integralmente: «Nel mese di marzo 1817 le guardie di sicurezza di Orsara agli ordini  del tenente Tresini insieme con la civica comunale agli ordini del suo capitano, si scontrano con la comitiva Vardarelli nel bosco Magliano. All’inizio dell’attacco ambedue i comandanti prendono finalmente la via della fuga, seguiti dai loro militi. Il colonnello Mari, venuto a conoscenza del grave episodio, dispone il loro arresto e trasferimento nel castello di Manfredonia, dove rimangono per sua disposizione». (Fonte: Arch. di Stato di Foggia, Intendenza, Governo, Prefettura, Atti di polizia, Serie I, Busta 10, Fascicolo  381, Anno 1817).
 

Dopo questo fatto increscioso la banda dei Vardarelli è segnalata in diversi luoghi. Il 18 maggio  nel Vallo di Bovino e 19 di nuovo in Santa Maria in Vulgano di Biccari. La sera stessa, alle ore 20,00, forte di venti briganti a cavallo, tutta «furibonda e baldanzosa», il gruppo  si presenta alla masseria di Carignano, scontrandosi con due guardiani che si difendono sparando. Nel conflitto muore un brigante, ma i  suoi compagni prendono in ostaggio Giuseppe Cappotto, che per vendetta viene fucilato. Il  giorno dopo, i fuorilegge  vengono segnalati in Ascoli Sadriano.
Dopo pochi giorni, precisamente il 24,  eccoli di nuovo all’ opera, questa volta a Roseto Valfortore. Un fatto molto grave avvenne il 25 maggio, nei pressi della Taverna  di proprietà di  Crisante Venditti, nella zona di Gambatesa: i briganti vennero attaccati dai civici di Riccia, sei dei quali perdono la vita. Scomparsi per alcuni giorni, il 29 maggio riappaiono  nel Distretto di Bovino: vi  rimangono  fino al 2 giugno, con continue scorribande e assalti vari. Il 3 giugno la masnada dei Vardarelli si trasferisce nella zona  di San Severo, inseguita dal colonnello Mari che pone il quartiere generale in Torremaggiore. Il  6 giugno ricompare in agro di Portocannone.
Dopo questa lunga (ma rapida galoppata), eccoci finalmente all’ultimo episodio di questa storia criminale.
21 giugno 1817 «La banda dei Vardarelli si trova in agro di Accadia, dove ha uno scontro con i soldati delle truppe borboniche. Per la mietitura in atto Gaetano Meomartino, tutto preso dai problemi della povera gente, il 30 giugno 1817 fa recapitare al Sindaco di Foggia (vedere la seguente comunicazione: “Al Signor Sindaco del Comune di Foggia – Signor Sindaco, vi compiacerete partecipare a tutti codesti Proprietari il mio nome che non facessero mangiare la spica delle loro masserie agli animali neri ma bensì a farla spicolare ai poveri, e se loro sono sordi a questo mio ordine, io li brucerò tutti i loro averi. Tanto eseguirete, e con stima vi saluto, e vi dico che se io avrò ricorso, che voi non farete eseguire i miei ordini voi sarete responsabile .Lì 30 Giugno 1817 Io Vardarello ». (Fonte: Archivio di Stato di Foggia, Serie I, Busta 10, Fascicolo 381, ibidem).
Con questo scritto, cala definitivamente il sipario sull’ultimo atto dell’avventura  di Gaetano Vardarello, come bandito. Dall’inizio della sua parabola criminale (agosto 1809) sono passati otto anni; un lungo periodo di dominio  incontrastato tra le nostre campagne.      

                          Terzo capitolo – tagliatore di teste 

Torniamo al 5 luglio 1817, giorno del famoso accordo (dopo lunghe trattative segrete) tra Gaetano Meomartino e il barone Tilli, uomo di fiducia  dell’allora  ministro degli Interni. Il barone, dopo i primi approcci, ebbe modo di riflettere molto su questo “bizzarro personaggio”; alla fine, da buon psicologo, trovò forse  il suo Tallone di Achille nella «mania di grandezza e nei soldi», protagonista di una singolare metamorfosi: da bandito a brigante contro i francesi; militare al servizio dei Borboni; di  nuovo brigante contro l’autorità; tagliatore di teste, al servizio dei Borboni, alla caccia dei briganti stessi.
Come abbiamo già raccontato, il governo borbonico – confessando così, implicitamente, di essere  incapace  di sconfiggere militarmente la banda – il 6 luglio 1811 siglò un patto con il quale si stabiliva  che tutti i membri della banda fossero stipendiati per agire contro i malviventi del Regno.
Cosi facendo, firmarono di fatto la loro condanna di morte, non immaginando neanche minimamente il doppio gioco del governo. Il loro assassinio fu definito «un omicidio di Stato, criminale, a sangue freddo».

                                   La tragica fine in due tempi

6 luglio 1817-27 aprile 1818  Il sogno di Gaetano Meomartino, il capo indiscusso dell’ormai celeberrima banda dei Vardarelli, di essere ricordato come «unico ex brigante capo di un corpo speciale di armigeri al servizio del re», creato per combattere malavitosi, ladri e perturbatori dell’ordine pubblico, durò soltanto nove mesi. Come sappiamo, tornato nel 1815 sul trono, il re Borbone, si trovò a combattere il fenomeno del brigantaggio. Quella che gli dava veramente filo da torcere da tanto tempo era capeggiata appunto dal Meomartino. Incapace di sconfiggerla sul campo, il governo si vide costretto a portarla dalla propria parte, assoldando questi malviventi per contrastare le altre formazioni fuorilegge. Da banditi, gli uomini di Meomartino  divennero sbirri al soldo dei Borboni. Ma tutto questo, che sembrava una vera capitolazione, alla fine si dimostrò essere un  bluff  escogitato dalle stesse autorità.  In questi tre mesi i Vardarelli portarono a segno diversi colpi, riuscendo a catturare ed annientare  diverse bande di  briganti; ma il loro destino era ormai segnato.

Ururi e Foggia 

Su questi tragici fatti  esistono diverse versioni; ecco, a nostro modo di vedere, la più veritiera. Il tranello, ben congegnato, scattò su ordine del generale Amato, quando, nei primi giorni dell’aprile 1818, ordinò agli uomini di Vardarell il trasferimento nel circondario di Larino, zona particolarmente infestata da brigantaggio.  Ricevuto l’ordine, al comando di Gaetano Meomartino, gli armigeri (erano 45, ndr) si misero in viaggio; la sera dell’8 aprile la comitiva, causa l’oscurità, fu costretta a pernottare nei pressi dell’abitato di Ururi, a circa 11 chilometri da Larino: non potevano sapere che lì, da diversi giorni, nascosto nella vicina boscaglia, un grosso plotone di militari al comando del tenente Campofreda li aspettava. L’ordine di servizio diramato dal comandante era che la mattina seguente, alle ore 8,00 tutta la compagnia, prima di riprendere il viaggio, doveva essere schierata in piazza Della Porta, per l’appello della truppa. Lascio, alla fantasia di chi legge, immaginare come si presentava la piazza quella domenica mattina il 9 aprile: stracolma di gente incuriosita.  Gaetano Meomartino aveva appena terminato l’appello e il trombettista aveva dato il segnale di partenza: in quel momento scattò l’agguato. Al segnale stabilito – un  panno bianco da una finestra che si affacciava sulla piazza – i numerosi soldati appostati aprirono il fuoco, una tempesta di  colpi che si abbatté sullo schieramento, principalmente nelle vicinanze dei Vardarelli. Al suolo, sette cadaveri: i fratelli Gaetano, Geremia e Giovanni Meomartino e quattro componenti della comitiva, Serafino Viola, Carlo Tosto, Domenico Furia e Tommaso Santopaolo. Gli  altri trentanove, approfittando del trambusto generale, si allontanarono velocemente sui loro cavalli e fecero perdere  le loro tracce. Rimasero allo sbando per circa due settimane. Nei libri parrocchiali di Ururi si legge: « Il 9 aprile 1818 Gaetano De Martino  (sic) figlio di Pietro e Donata Annantoni del Comune di Celenza, domiciliato in Castelnuovo, è morto ammazzato a colpi di scoppiettate in età di 40 anni circa, senza ricevere alcun sacramento, verso le ore 15 di detto giorno. Il suo cadavere è stato seppellito nella Congregazione dei morti di questo Comune».
Tutto ebbe fine, comunque, il 27 aprile1818, con l’eccidio di Foggia.
I superstiti di Ururi restarono latitanti per circa due settimane, arco di tempo in cui  l’esimio generale Amato ebbe modo di perfezionare il suo diabolico piano per il loro definitivo sterminio. Con la scusa di scegliere il loro nuovo capo, per assolvere gli impegni assunti precedentemente, riuscì a convocarli a Foggia, presso il quartier generale. Quel giorno, al grido di «Viva il Re», la comitiva entrò in Foggia tra due ali di popolo assiepato ai margini della strada – come  ad Ururi –  e, come stabilito, si diresse al quartier generale. Il generale,  all’interno del cortile, sorridendo, faceva cenni di compiacenza,  mentre il colonnello Sivio, disposti in fila quei trentuno (dovevano essere trentanove, ma otto non si presentarono), li passò in rassegna. Il tutto durò ben due ore, per dar tempo alle squadre napoletane di circondare quel grande spazio e attendere il segnale.
«Levossi il berretto il generale Amato (era questo il segnale) e ad un tratto avanzarono  le colonne colle armi in pugno, e gridando, arrendetevi: i Vardarelli frettolosamente montano sopra i cavalli; ed allora le prime file dei soldati scaricano le armi, nove dei Vardarelli cadono estinti, due si aprono un varco e dileguandosi; gli altri venti, atterriti, abbandonano i cavalli, fuggono confusamente in un grande e vecchio edificio ch’era alle spalle. La fama del loro coraggio e la disperazione che lo accresceva ritiene i soldati dallo inseguirli: accerchiano però l’edificio, spiano, non veggono uomo né segno di fuga, entrano a folla, ricercano vanamente ogni loco; stavano meravigliate  ed incerte, quando dallo spiraglio di una cava uscì un colpo che andò a vuoto; un soldato si affacciò per altro colpo fu spento; erano i Vardarelli in quella fossa. Vi gettano i soldati in gran copia  e per lungo tempo materie accese, non esce da quell’inferno  lamento o sospiro, ma più crescevano il fuoco ed il fumo. Si udirono contemporaneamente  due colpi, e poi seppesi che partirono dalle armi di due fratelli, che, dopo gli estremi abbracciamenti  a vicenda si uccisero: arrenderono altri diciassette, un ultimo si trovò morto ed arso. Informato (il generale Amato, ndr) il governo, comandò che gli arresi fossero messi in giudizio per aver mancato alla convenziona del 6 luglio; e però in un sol giorno del Maggio 1818 furono dal tribunale militare, condannati, posti a morte. Gli altri dieci fuggiaschi, (compreso gli otto contumaci, ndr), in vario modo, in varii tempi furono  distrutti; si spense affatto quella trista gente, non in buona guerra dove tante volte fu vincitrice, ma per tradimenti ed inganni, cosicché nel popolo i nomi loro e le gesta sono ancora raccontate con lode o pietà. I già imprigionati di Ururi tornarono liberi e premiati. Delle malvagità dei Vardarelli altra ed alta malvagità fu punitrice; ne venne al governo pubblico vitupero, che non si onesta il tradimento perché cada su traditori».
Così scrisse il generale Pietro Colletta in Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825, (1834, edita da Gino Capponi), Tomo Secondo, Sezione Libro Ottavo, XXX,  pag. 188, Anni 1815/1820.
Giunti alla fine di questa  prima parte – e mi scuso per la lungaggine –,  un breve commento è d’obbligo.

Che dire di questa interessante vicenda storica, che mi ha tanto affascinato, e  il  cui tragico epilogo, come già accennato in precedenza, venne giudicato dagli storici di allora alla stregua di un «vero omicidio di Stato, criminale e a sangue freddo»?
Senza  avere l’ardire  di competere con gli studiosi, quello che è successo fu davvero una vera e propria tragedia. Potrei forse, provocatoriamente,  commentare: «Che peccato, pensa che bello se i Vardarelli fossero stati nativi  di San Bartolomeo. Sarebbe stato un bel colpo per il paese, nel bene e nel male».
Certamente dopo questa affermazione i galantuomini di allora si staranno  ribellando nelle loro tombe e, magari, quelli  di oggi, davanti a queste parole, si sentiranno indignati e offesi.
Ma, ripeto, si tratta solo di una provocazione.   <

<fine 1a parte>


Paolo Angelo Furbesco, Milano, Agosto 2018

                                                                                                                                                    

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