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venerdì, 29 Marzo 2024

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BRIGANTI NELLA VALFORTORE – parte finale-

a cura di Paolo Angelo Furbesco

Leggi qui la parte 1
Leggi qui la parte 2

Brigantaggio Locale

Toppo dei Felci – Il covo dei briganti – Il sogno dei filo-borbonici

Il bosco di Mazzocca costituiva una delle più grandi aree verdi dell’ex regno borbonico delle due Sicilie. Si estendeva tra i territori montagnosi di San Bartolomeo, Baselice, Castelvetere, Colle e San Marco dei Cavoti.

Nel 1804 il Giustiniani  lo descrive come  «uno de’ più grandi boschi del Regno, e ne’ tempi andati a cagion de’ ladri erano soliti far prima testamento coloro, i quali, dovean passare». Sulle montagne di Mazzoca, in prossimità del centro di questo vasto territorio si trovava la contrada denominata Toppo dei Felci, località strategica e base per diverse forze reazionarie filo-borboniche che aspiravano al ritorno del loro Re, diventando il vero punto cardine di tutto il circondario. Come sappiamo bene, allora il brigantaggio contava decine di grandi e piccole bande, che imperversarono per anni  in questi territori sfruttando anche una vasta rete di solidarietà e complicità. In merito a questo luogo, la storia ci tramanda quanto ebbe ad affermare  il conte di Caprara, Carlo Torre (1812-1889), governatore e prefetto di Benevento (dall’ottobre 1860 al luglio 1861); sono parole molto importanti,  per la comprensione dei fatti che qui ci interessa ricordare, e che quindi riportiamo integralmente (dall’Archivio di Stato Napoli, Alta Polizia, fascicolo 180, Anno 1861): «Tra i Comuni di Castelvetere e Baselice è un bosco che chiamano Toppo di Felci e  Mazzocca, il quale cominciando da un  punto quasi centrale tra i detti due Comuni e gli altri di Colle e San Marco dei Cavoti, s’inoltrava nella Capitanata per molto notevole lunghezza. Il suo principio che è precisamente l’indicato punto centrale tra i quattro Comuni, è su di una collina la quale propriamente dicono toppo di Felci. In questo bosco appunto è il covo del brigantaggio. Questi malfattori hanno una lunga e larga estensione in cui potersi nascondere e difendere secondo i casi. Di là essi minacciano accennando ora all’uno ora all’altro Comune e dal Toppo dei Felci, donde mi si dice che si coprono i dintorni a molta distanza, hanno opportunità  di scorgere  l’avvicinarsi della forza o di altre persone. Aderenze tengono costoro in tutti quei Comuni, ma specialmente in Colle, poiché circa 30 Collesi sono tra loro. Le Autorità locali per tema di richiamare più prestamente sopra di loro le aggressioni e le vendette degli assassini, si sono astenute di rilevare e molestare coloro che tengono mano ai loro nefasti attentati. Quale sia il numero dei briganti, chi propriamente e d’onde tutti venuti non mi è stato possibile minimamente investigarlo. Ma ormai cominciano a scuotersi, tanto che su le loro indicazioni ha arrestato quattro individui a S. Croce di Morcone, e due in Castelpagano come iniziati di connivenza secondo che apprendo da un rapporto del Giudice di quel Mandamento. Tale onda principale: altre piccole bande appariscono ora in un punto, ora in un altro del restante  territorio del Circondario. Onde il terrore è massimo nei Comuni vicini all’accennato bosco, minore altrove. Due sono i motivi che sostengono lo sgomento dei più notabili cittadini; il sapere che i briganti tengono aderenze nella plebe di quei Comuni, il che vale avere il nemico in casa; la tema  che non riuscendovi felicemente in un attacco, avessero a rimanere vittime dell’atroce crudeltà di quegli uomini di sangue. Essi, le loro famiglie e le loro case. Dal breve cenno che ho esposto, si rileva che l’agitazione maggiore è nei Comuni di Colle, San Marco dei Cavoti, Baselice e Castelvetere. E perciò le mie operazioni sono principalmente ad essi dirette. Una colonna di truppa si tiene a Colle e nei dintorni; un’altra di volontari è partita stamane secondo altro mio rapporto di pari data. Il mio scopo principale è quello di rialzare lo spirito pubblico, affinché  le popolazioni, ripigliato animo, si adoperino a distruggere da sé, questo triste flagello».

 I QUATTRO BRIGANTI… DELL’APOCALISSE  

Quello appena riportato fu il grido d’allarme lanciato intorno all’anno 1861 dall’allora governatore-prefetto di Benevento, Carlo Torre. Certo, a rileggerlo oggi, colpisce che, a suo dire, tutto si doveva e poteva risolvere grazie allo spirito della sola popolazione; dovettero invece passare diversi anni con  innumerevoli conflitti a fuoco tra i rivoltosi e i 120mila piemontesi mandati da Camillo Benso di Cavour – primo presidente del Consiglio dei ministri del nuovo Stato Italiano – per debellare la rivolta del Meridione. Ben 15mila di quei soldati furono catapultati nella nuova provincia di Benevento. In queste terre, gli storici ci raccontano che tra il 1861 e 1865 furono fucilati o uccisi 5.212 briganti; 5.044 quelli arrestati. Gli uomini che operarono nella valle del Fortore erano quasi tutti pregiudicati per delitti comuni, spesso latitanti e già dediti al banditismo. Tali erano Michele Caruso da Torremaggiore, Antonio Secola e Domenico Lisbona da Baselice, Giuseppe Schiavone da Sant’Agata di Puglia, Marco De Masi da Foiano, Baldassarre Ianzito da Molinara, Nicola Lazzaro da Pago Veiano, Diodoro Ricciarelli da San Marco dei Cavoti, Francesco Saverio Basile da Colle, e altri ancora. «Le bande erano  organizzate in piccoli gruppi con un capo. Sulla groppa del cavallo tenevano due bisacce a doppia tasca, in cui erano viveri, munizioni, capi di vestiario. Erano armati di doppiette da caccia e di fucili militari strappati ai soldati avversari. Le varie bande  comunicavano fra loro con colonne di fumo durante il giorno o con falò di lampade nella notte. I messaggi venivano trasmessi con speciali accorgimenti come stracci esposti alle finestre, intacchi sulle piante, rami spezzati, sassi accatastati, imitazioni di richiami di uccelli. Sentinelle e vedette davano l’allarme con fucilate, fischi, squilli di tromba. Durante i rastrellamenti, da parte delle truppe regolari, i briganti si spostavano in continuazione, i feriti venivano raccolti oppure uccisi e cremati dai loro stessi compagni per renderli irriconoscibili, e per evitare delazioni. Le bande a cavallo riuscivano a percorrere in una sola giornata anche 70 Km. I briganti praticavano la guerriglia con ritirate improvvise nei boschi o verso i monti». (Fonte: Il brigantaggio nelle provincie napoletane, di Giuseppe  Massari e Stefano Castagnola,  Napoli, 1863). Come abbiamo già riferito, il brigantaggio della Valfortore ha annoverato  centinaia di uomini; ci limiteremo a raccontare le geste di quattro esponenti di questo mondo criminale (i “quattro dell’apocalisse”, potremmo definirli), scegliendoli tra quelli che operarono di più nel territorio dell’alta Valfortore, ovvero  nelle vicinanze del nostro paese: Francesco Saverio Basile, Giuseppe Schiavone, Antonio Secola e  Michele Caruso.

1) Francesco Saverio Basile


Fu Pasquale alias Pelorosso (in dialetto Pìlërusscë, ndr). A dire degli storici, la sua breve carriera di brigante terminò all’alba del 10 agosto 1861 quando l’esercito piemontese, in quel di Pietrelcina, sbaragliò definitivamente la sua banda composta da circa mille uomini. Ci hanno raccontato che nacque in quel di Colle nel 1834 (paese che dalla provincia di Campobasso passò  nel 1861 alla nuova provincia di Benevento con l’aggiunta del secondo nome “Sannita”, ndr). Colpito da un mandato di cattura perché accusato di aver partecipato alla rivolta di Circello (sempre in  provincia di Benevento) dal 1860 in poi si diede alla macchia rifugiandosi nell’immenso bosco Mazzocca, da allora suo regno incontrastato. Era un  luogo frequentato da gentaglia di ogni specie, per cui in poco tempo riuscì a reclutarne alcune centinaia, ingaggiati esclusivamente per il ripristino dei Borboni. Dal Toppo dei Felci, aveva l’opportunità di scorgere chiunque volesse avvicinarsi al suo nascondiglio, e da lì poteva facilmente muovere all’assalto dei paesi vicini. Il suo curriculum di capo brigante è ricco di episodi. Nei primi mesi del  1861 è con la sua banda a Colle e Castelpagano, il 30 maggio a  Decorata, il 19 luglio  a San Giorgio del Sannio. In questo periodo  il suo gruppo criminale arriva a contare circa  200 unità. Nel primo pomeriggio del 6 agosto, dal famigerato “Toppo”, piomba in San  Marco dei Cavoti: dopo un breve conflitto a fuoco  con i pochi soldati lì rimasti, occupa  il paese anche grazie all’aiuto della popolazione che si era ribellata all’invasore piemontese. Con grande entusiasmo degli abitanti, fa innalzare sulla piazza la bandiera dei Borboni e procede alla proclamazione del nuovo sindaco: il primo cittadino,  Giuseppe Costantini, era precipitosamente fuggito. Il giorno successivo, senza incontrare  resistenza,  occupa Molinara, mentre l’8 agosto entra trionfalmente, da vero eroe, a San Giorgio La Molara, proclamando anche qui un nuovo primo cittadino. Il giorno dopo, il 9 agosto, con l’intenzione di puntare verso Benevento (con  una  banda che  nel frattempo era cresciuta di numero e ora contava circa mille  briganti) si dirige verso   Pago Veiano, e poi verso Pietrelcina, senza colpo ferire:  non incontra, infatti, alcuna resistenza. All’alba del 10 agosto 1861 la cose  cambiano: un nutrito  schieramento di soldati dell’esercito sabaudo gli si para davanti (evidentemente la poca resistenza opposta nei giorni precedenti, era un preciso piano strategico); poteva ancora una volta fuggire, come sempre aveva fatto in passato, ma intuendo la sua prossima fine e  sospettando  che il popolo si apprestava ad  abbandonare la causa borbonica (ma si tratta di  una semplice supposizione di chi scrive), preferì, come già riferito, accettare la battaglia. L’esercito sabaudo sbaragliò la sua banda. Ebbe così fine il sogno filo-borbonico  della meteora “Pelorosso” di riprendersi la provincia di Benevento. In merito alla sua fine, diversi scritti affermano che scomparve addirittura senza lasciare alcuna traccia. Tutto rimane avvolto dal mistero. Esistono diverse versioni sulla sua dipartita: mi limito a citarne due, lasciando a chi legge le dovute considerazioni. Ecco come Gigi (Luigi) Di Fiore in, Briganti:controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi (Utet 2017), ci descrive la sua fine: «…A Pietrelcina, la banda entrò tra l’entusiasmo della gente guidata dall’arciprete don Nicola Tommasi. Ma già il 10 agosto arrivò la fine sanguinosa di quella marcia. Una colonna del 61º fanteria intercettò la banda.”Pelorosso” cercò di evitare lo scontro, ma venne inseguito dai bersaglieri. Fu battaglia, un combattimento durissimo e senza speranze per i briganti. La banda venne massacrata e “Pelorosso” morì in combattimento». Del tutto differente  è il racconto  riportato  da Fiorangelo Morrone in Storia di Baselice e dell’alta Valfortore, (Arte Tipografica, Napoli, 1993): «Francesco Saverio Basile, il Pelorosso, dopo le imprese compiute nel Beneventano ai primi di agosto, si scontrò  a S. Pietro Infine con un  reparto  di truppe italiane; ebbe la peggio ma riuscì a fuggire in territorio pontificio. Respinto da un distaccamento francese nei pressi di Ceprano, si scontrò di nuovo con le pattuglie italiane, le quali dopo non lieve lotta, riuscirono a impadronirsi di lui e di alcuni suoi gregari. Portava l’uniforme borbonica e aveva con se molti oggetti di valore e 600 scudi romani. Venne fucilato. Nello scontro di S. Pietro Infine fu catturato anche Antonio Caretti un luogotenente del Basile. Fu fucilato a S. Germano il 24 agosto 1861». La descrizione riferita da Gigi Di Fiore è chiara: fu ucciso il 10 agosto 1861 a Pietrelcina. Da contatti telefonici intercorsi con il Comune di Pietrelcina,siamo venuti a conoscenza che i registri dell’anagrafe del paese partono dal 1866. Dal Comune di nascita del Basile, Colle Sannita,  abbiamo appreso che nacque nel 1834 e che della sua morte non risulta purtroppo alcuna trascrizione. (Ringrazio vivamente per la loro  gentilezza la signora Mottola, addetta all’anagrafe,  e il signor Angelo D’Emilia,  responsabile  della biblioteca). Per quanto raccontato  dal professore Fiorangelo Morrone, abbiamo contattato: Il Comune di Ceprano, in provincia di Frosinone; dall’ufficio anagrafe (un ringraziamento alla Sig.ra Rossi) abbiamo appreso che i registri partono dal 1871, di conseguenza ricerca negativa. Il Comune di San Pietro Infine, in provincia di Caserta; dall’ufficio anagrafe nella persona dell’impiegata Stefania Sangermano (che ringrazio) abbiamo appreso che i registri partono dal 1865. Ricerca negativa, anche in questo caso. Il Comune di Piedimomonte San Germano, in  provincia di Frosinone; dall’ufficio anagrafe nella persona di Giuseppe Giorgio abbiamo appreso che non esistono registri in merito. Un sentito ringraziamento.

2) Giuseppe Schiavone


Fu  Gennaro alias Sparviero, fucilato in quel di Melfi il 28 novembre 1864 all’età di 26 anni (era nato a Sant’Agata di Puglia il 19 dicembre 1838). Sotto le armi con il grado di sergente, nel 1861 fu dichiarato disertore dal Governo sabaudo; si diede alla macchia unendosi prima alla banda di Carmine Crocco, poi  a quella di Michele Caruso diventando in breve tempo un suo luogotenente, partecipando a innumerevoli scorribande  a cavallo del fiume Fortore, in territori a loro molto favorevoli.  ricordato – tra  le altre cose –  per l’uccisione di 17 soldati piemontesi del 39º Reggimento fanteria in contrada Francavilla nei pressi di Benevento, avvenuto il 24 febbraio 1863 (come ci ricorda la lapide posta nel cimitero di Benevento) e per il massacro di 20 soldati della Guardia Nazionale in Orsara di Puglia  il 23 giugno 1863.  La sua presenza nei nostri territori è legata in modo particolare all’uccisione del brigadiere dei carabinieri Alessandro Falini avvenuta 13 giugno 1862 nei pressi di Foiano, e per gli eccidi di civili del 7 settembre 1863 in Castelvetere di Valfortore e del 9 settembre 1863 nei pressi di San Bartolomeo in Galdo.  Dopo questi tragici fatti, Schiavone lasciò la banda del Caruso unendosi di nuovo alla banda del Crocco, macchiandosi di altri numerosi atti criminali. La sua cattura avvenne grazie al tradimento dall’altro Caruso (Giuseppe alias Z’Pèppë), spietato luogotenente del citato Crocco, il quale, verso la fine del’anno, si consegnò  alle autorità sabaude diventando un loro fedele collaboratore. Partecipò anche lui alla cattura di Schiavone, tra la notte del 25 e del 26 novembre 1864, nei pressi di Melfi, con il contributo dell’ex amante di Schiavone, Rosa Giuliani, abbandonata per la brigantessa Filomena Pennacchio (1841-1915): una  parentesi “rosa” in  questa lunga lista di fatti sanguinosi. Come raccontano gli storici, la mattina successiva, prima di essere fucilato, «Schiavone chiese di poter vedere per l’ultima volta la sua compagnia Filomena, che attendeva un figlio da lui ed era rifugiata nell’abitazione di una levatrice. Gli fu concesso quest’ultimo desiderio e alla vista della sua amata si inginocchiò chiedendole perdono, la strinse tra le sue braccia e le diede il suo ultimo idilliaco bacio. Pochi istanti dopo il brigante fu fucilato assieme ad altri condannati». (Fonte: Wikipedia).

3) Antonio Secola


Baselicese puro sangue, nacque il 5 ottobre 1832. Antonio Bianco nel libro Il brigante Secola (Il Chiostro, Benevento 2011), lo ricorda così: «La storia di un brigante “per caso”, muratore del Fortore, area geografica montana della Campania, al confine con Puglia e Molise. I briganti agli ordini di Michele Caruso imperversano nella zona. Secola,  scappato  dal carcere di Campobasso si fa brigante e ben presto conquista la fiducia dei suoi compagni e del comandante Caruso, tanto da diventare il suo luogotenente». Ebbe il coraggio di denunciare qualche “signore” del Fortore che aveva fatto  il doppio gioco. È noto come  andò a finire: nonostante la sua astuzia nel denunciare i suoi ex protettori, tra i più ricchi possidenti della zona, questi  vennero tutti assolti  per insufficienza di prove (vedi, in particolare, il sindaco di Baselice Rosario Petruccelli, ndr). Tutto ebbe fine  il 21 gennaio 1865 davanti al Tribunale militare di Caserta: «Il Tribunale di guerra giudica Secola Antonio, di anni 33, di professione muratore, nativo di Baselice, in provincia di Benevento, colpevole del reato di brigantaggio e resistenza a mano armata contro la forza pubblica, viene punito con la fucilazione ma, per essersi volontariamente costituito, il Tribunale all’unanimità vota la riduzione della pena di un grado. Pertanto non concorrendo circostanze attenuanti a suo favore, il tribunale lo condanna ai lavori forzati a vita».  La sua vita di “brigante per caso” era iniziata nel 1859 all’età di 27 anni,  quando –come   già riferito – riuscì a fuggire dal carcere di Campobasso, dandosi alla macchia per circa 6 anni; rimase quasi sempre nei dintorni del suo paese natio, forse sotto l’ala protettiva  di quelli che oggi chiameremmo “poteri forti”. Gli  storici ci segnalano che, unitamente al brigante  Antonio Lisbona,  il 26 luglio 1862, quando aveva 32 anni, si unì alla banda del capo brigante Michele Caruso. Rimarrà in quella formazione criminale  per circa 3 anni, partecipando a numerosi assalti: il 4 novembre 1862 presso Santa Croce di Magliano  (un paesino della provincia di Campobasso distante da San Bartolomeo circa 60 chilometri) quando  «fu sterminata quasi completamente la 13ª compagnia del 33º Reggimento fanteria che il capitano Giuseppe Rota, ex garibaldino dei Mille, gli aveva condotto  imprudentemente contro, rimanendo  sul terreno lo stesso capitano, il luogotenente Perino, due carabinieri e diciotto soldati»; il 7 settembre 1863 in quel di Castelvetere di val Fortore, in contrada Cancinuto, con 18 vittime civili; il 9 settembre 1863 in prossimità di San Bartolomeo in Galdo, con l’uccisione di 16 persone tra civili e militari. Rimasto senza il suo capo (fucilato il 12 dicembre 1863), vagò nei pressi di Baselice da solo per alcuni mesi; infine, quando apprese che il suo compaesano Antonio Lisbona era stato ucciso (il 26 marzo 1864), si rese conto  che la fine era ormai vicino: stanco e forse pentito dei suoi crimini, il 2 giugno 1864, si consegnò alle forze dell’ordine. La sua carriera di brigante era durata  circa 5 anni. Morì  il  21 aprile 1885, a 53 anni, dopo vent’anni di carcere trascorsi nel bagno penale  di Portolongone, nell’attuale Comune di  Porto Azzurro, sull’isola d’Elba. Dove è stato sepolto rimane un mistero.
Una breve riflessione personale, a questo punto.
Il modo in cui si svolse il processo a Secola mi fanno tornare in mente le parole pronunciate al Circolo della stampa di Milano da Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera,la sera prima di essere ucciso:
«È vero, c’è un imbarbarimento della società italiana che tocca tutti, ma sappiamo  come nasce, e non possiamo meravigliarci ogni volta che ne scopriamo gli effetti. […] Dobbiamo impedire che si propaghi. […] Non è assolutamente sano in un paese democratico che la politica si faccia nei palazzi di giustizia». (Fonte:Poteri forti (o quasi) di Ferruccio de Bortoli (La nave di Teseo, Milano 2017).  Il “giornalista scomodo” fu ucciso il 28 maggio 1980, quando aveva 33 anni, la stessa età che aveva il brigante Antonio Secola quando fu condannato nel 1865. È passato più di un secolo, ma ci sono fili e costanti che rimangono immutati.  «Il “brigantaggio cosiddetto povero” ebbe fine, mentre “quello dei galantuomini” è rimasto. Non contro lo Stato ma dentro lo Stato»: parole di Gianni (Giovannino) Vergineo, da Fortore solitario (Arte Tipografica, Napoli, 1998).

4) Michele Caruso


Soprannominato “Il colonnello” (in dialetto, û colonnèllë, ndr), potremmo definirlo come “il capo dei capi”. Venne  catturato il 7 dicembre 1863,  grazie a una soffiata, nei pressi di un pagliaio nella campagna tra i territori di San Giorgio la Molara e Molinara, Comuni della provincia di Benevento. Sottoposto al giudizio immediato del Tribunale militare straordinario del capoluogo, venne riconosciuto colpevole dell’uccisione di 90 persone (soldati, carabinieri e guardie nazionali) nonché di circa 60 delitti comuni  contro contadini, campagnoli, civili (tra uomini, donne e bambini) con «inaudita violenza». Fu condannato alla pena di morte mediante fucilazione eseguita il 12 dicembre 1863 in quel di Benevento nei pressi di Porta Rufina (abbattuta negli Anni 20 del secolo scorso, tutt’oggi “Stazione ferroviaria Porta Rufina”, in via Mulini, ndr): aveva poco più di 25 anni, era nato il 30 luglio 1837 a Torremaggiore. Come abbiamo già raccontato, tra i suoi luogotenenti spiccavano Antonio Secola da Baselice (che agiva all’origine da solo) e Giuseppe Schiavone da Sant’Agata di Puglia. Fuggito dalle carceri di San Severo, si dette alla macchia. «Scelse come campo per le sue gesta, il territorio di Riccia, sia perché ivi si congiungono le province di Campobasso, Foggia e Benevento, sia perché in quei tempi quelle valli e quei monti essendo rivestiti di folte boscaglie offrivano ai masnadieri sicuro asilo»: così scrive Abele De Blasio in Il brigante Michele Caruso (Napoli 1910). Dal 1860 al 1863, quindi, con operazioni «mordi e fuggi», operò nelle zone della Capitanata, Sannio, Molise, in particolare modo dopo l’Unità d’Italia. La sua banda è stata, nel giudizio degli studiosi, la più terribile di quei tempi.  Nonostante la giovane età, dimostrò una notevole abilità di stratega. In merito alla sua figura, ecco il parere di Gianvito Pizzi (nato a Napoli), vissuto nei suoi primi vent’anni a San Bartolomeo: «Era talmente temuto che in molti resoconti, si leggeva che i componenti dell’esercito dei Savoia, stavano lontani dove lui stazionava o andavano dalla parte opposta, appena avevano sentore della sua presenza.


Soprannominato “Il colonnello” (in dialetto, û colonnèllë, ndr), potremmo definirlo come “il capo dei capi”. Venne  catturato il 7 dicembre 1863,  grazie a una soffiata, nei pressi di un pagliaio nella campagna tra i territori di San Giorgio la Molara e Molinara, Comuni della provincia di Benevento. Sottoposto al giudizio immediato del Tribunale militare straordinario del capoluogo, venne riconosciuto colpevole dell’uccisione di 90 persone (soldati, carabinieri e guardie nazionali) nonché di circa 60 delitti comuni  contro contadini, campagnoli, civili (tra uomini, donne e bambini) con «inaudita violenza». Fu condannato alla pena di morte mediante fucilazione eseguita il 12 dicembre 1863 in quel di Benevento nei pressi di Porta Rufina (abbattuta negli Anni 20 del secolo scorso, tutt’oggi “Stazione ferroviaria Porta Rufina”, in via Mulini, ndr): aveva poco più di 25 anni, era nato il 30 luglio 1837 a Torremaggiore. Come abbiamo già raccontato, tra i suoi luogotenenti spiccavano Antonio Secola da Baselice (che agiva all’origine da solo) e Giuseppe Schiavone da Sant’Agata di Puglia. Fuggito dalle carceri di San Severo, si dette alla macchia. «Scelse come campo per le sue gesta, il territorio di Riccia, sia perché ivi si congiungono le province di Campobasso, Foggia e Benevento, sia perché in quei tempi quelle valli e quei monti essendo rivestiti di folte boscaglie offrivano ai masnadieri sicuro asilo»: così scrive Abele De Blasio in Il brigante Michele Caruso (Napoli 1910). Dal 1860 al 1863, quindi, con operazioni «mordi e fuggi», operò nelle zone della Capitanata, Sannio, Molise, in particolare modo dopo l’Unità d’Italia. La sua banda è stata, nel giudizio degli studiosi, la più terribile di quei tempi.  Nonostante la giovane età, dimostrò una notevole abilità di stratega. In merito alla sua figura, ecco il parere di Gianvito Pizzi (nato a Napoli), vissuto nei suoi primi vent’anni a San Bartolomeo: «Era talmente temuto che in molti resoconti, si leggeva che i componenti dell’esercito dei Savoia, stavano lontani dove lui stazionava o andavano dalla parte opposta, appena avevano sentore della sua presenza.

[…] Nel suo esercito faceva ciò che voleva. Arrivava anche a sparare il colpo di grazia ai moribondi, feriti in battaglia, tanto sarebbero stati fucilati dall’esercito piemontese. Così diceva e così solitamente avveniva. Era arrivato a contare circa 300 componenti nelle sue file. Un numero considerevole che dirigeva con acume tattico nei boschi appenninici,  scatenando una guerra  di resistenza e profittando di essa a suo uso e costumo. […] Gli scontri armati erano di violenza inaudita e sovente terminavano in carneficina. Quando la guerra diventò senza quartiere, incominciò ad accattivarsi contro i civili. Con il proseguire della sua personalissima guerra, divenne una bestia inferocita. Uccideva di suo pugno con arbitrio totale, non facendo più alcuna distinzione. Sparava alla nuca, alla schiena, uccideva a colpi di accetta, stuprava donne in continuazione. Non si sapeva più se il diavolo si era dimesso per fargli posto. Se la guerra partigiana che si opponeva all’esercito piemontese, divenne una guerra sporca detta brigantaggio, lo si deve  ad uomini come Caruso, che lasciarono nel popolo che ne fu vittima di una scia di orrore. È bene quindi conoscere la sua storia criminale, così si intende dove sono nati gli equivoci storici, che hanno portato nei bassifondi, quella che è stata definita la guerra cafona». Dal suo lungo curriculum di fatti e misfatti, estraiamo alcuni episodi criminosi avvenuti principalmente nelle vicinanze dei nostri territori. 

13 giugno 1862 Il  suo esordio in queste zone. In  contrada “Acqua Partuta” nel bosco Mazzocca, nel tenimento del Comune di Foiano di Valfortore, «una banda di briganti capitanata dal duo Caruso-Schiavone in un conflitto a fuoco uccide 9 guardie mobili del 39º Reggimento Fanteria e 4 carabinieri. Tra gli altri restano sul terreno Francesco Mossuto di San Bartolomeo in Galdo, Angelo Casamassa di Foiano di Valfortore e il brigadiere dei Carabinieri Alessandro Falini – nobile fiorentino – 22enne, di stanza in San Bartolomeo, in qualità di comandante». (Fonte: Fiorangelo Morrone, Storia di Baselice, 1993). A ricordo di questo vile massacro una lapide posta  nella caserma dell’Arma di San Bartolomeo in Galdo recita: «Medaglia d’argento al V.M. al brigadiere Falini Alessandro per aver sostenuto un fiero assalto da un gran numero di briganti a cavallo, ove combatté eroicamente senza punto retrocedere finché cadde estinto pieno di ferite – San Bartolomeo in Galdo (Benevento) 13-6-1862. R.D. 15 gennaio 1863 – ». Questo tragico episodio è riportato ampiamente anche sul Calendario Storico 2012 dell’Arma dei Carabinieri.

 24 febbraio 1863 Dopo  circa 8 mesi, sempre con  Schiavone, Caruso ricompare  dalle nostre parti, nei dintorni di Benevento. In contrada “Francavilla”, è l’artefice del massacro di diciassette soldati del 39º Reggimento fanteria. 

27 febbraio1863 Passano tre giorni e, questa volta, lo troviamo proprio a San Bartolomeo in Galdo.  «Verso la mezzanotte, innanzi  alla masseria  di don Lucio (sic) Colatruglio si fermarono dei briganti a cavallo. Caruso, che  comandava la comitiva, calato d’arcione, picchiò ripetutamente alla porta. Il guardiano Francesco Fiorillo, svegliatosi di soprassalto, incominciò con parolacce ad inveire contro il disturbatopre (sic). Apri, se nò (sic) dò (sic) fuoco alla masseria e ti arrosto come un pulcino, disse Caruso. Il Fiorillo, che dalla voce  aveva conosciuto il masnadiere, corse ad aprire e fece le scusa. Per San michè (sic) benedetto, per farti muovere ci volova (sic) tanto  e non vedi che con questo freddo si può prendere la bronchite? Del resto porta questo biglietto al tuo padrone, e noi, per non perdere del tempo, ci mangeremo questi due montoni che stanno nella stalla. Scuoiarono i due ruminanti i fratelli Santuccio e Angelo Polizzi. Cosimo Sciortino li trasformò in arrosto. Il biglietto inviato al Colatruglio diceva: Caro don Lucio (sic), mandati subito di pane vino salecicio per 300 persone 20 tomole di Biada e un piatto di poparuoli alla cete e 10 paccotti di sigheri e 10 bottiglie di Rosolio e 10 foglietti di Carta Colorata altrimenti vi brugia tutto. Il colonnello Miche Caruso». Il brano – e i suoi molti refusi – è tratto dal sito Briganti in provincia di Benevento. Ci permettiamo di segnalare al direttore di questo spazio web, Fioravante Bosco, che  dovrebbe  trattarsi di don Luca Colatruglio e non  di Lucio Colatruglio. La masseria in questione – di proprietà dei fratelli Luca e Carlo – si trovava e si trova tuttora presso la località Santangelo (in dialetto Sänt’ägnëlë, ndr) di San Bartolomeo in Galdo. La scorsa estate, infatti, chi scrive queste note ha parlato personalmente con i discendenti, Carlo e Giuseppe (detto “Pinotto”, ndr) Colatruglio. 

7 settembre 1863 Dopo circa  sette mesi, Caruso  ricompare a pochi chilometri da San Bartolomeo. E lascia un’altra scia di sangue. Ecco un passaggio di Luisa Sangiuolo da Il Brigantaggio nella Provincia di Benevento (1975): «In contrada Cancinuto di Castelvetere Valfortore, diciotto tra uomini e donne, vecchi e fanciulli fuggono spaventati alla comparsa della banda. Sterminati tutti senza pietà».  

9 settembre 1863 Quando a San Bartolomeo si viene a sapere dell’eccidio, scatta l’allarme; la breve distanza tra le  due località  lascia prevedere l’assalto, si raccolgono volenterosi che difendano il nostro centro.  In merito, ecco come prosegue il racconto  della Sangiuolo: «Caruso non vuole arretrare, anzi cerca il combattimento. Va  diritto sull’abitato. Fuori del paese cade Pasquale Ruggiero; indi è la volta delle Guardie Nazionali Giuseppe Farini, Michele Lauro, Basilio Viesti, Donato Vinciguerra, Michele Pepe, Angelo D’Andrea, Achille Mariella, Biase Iannantuono, Antonio Picciuta (sic), Antonio Circelli, Michele Noloas. Cade il Pelosi luogotenente del giudicato; cadono le Guardie di Pubblica Sicurezza Giovanni Guerra e Pellegrino Troise; cade il Carabiniere Reale Pasquale Santorita. I paesani temono l’invasione, quando Caruso intima il dietro-front. Via tutti a sequestrare don Giuseppe Iafaioli. don Angelo Maria Gisoldi, Domenico Del Prete e Domenico De Mora. Tutti uccisi, anche i primi due, nonostante le famiglie Iafaioli e Gisoldi abbiano subito raccolto 1.400 ducati. Nel corso dei sequestri alle masserie feriscono quattro individui, tra cui tale Michele Cerignola che a causa delle ferite riportate, morrà diciotto giorni dopo…Davanti al tribunale di guerra il brigante Nicola Tocci negherà di aver fatto  parte dell’eccidio». Tre mesi dopo, come già ricordato, Caruso verrà fucilato in quel di  Benevento, fuori porta Calore, insieme al brigante 17enne Francesco Testa: erano le 22 del 12 dicembre 1863. Il cadavere fu esposto in pubblico per un giorno intero. Il giornale locale Il Nuovo Sannio, ricordando parte dei misfatti da lui commessi, ebbe a scrivere: «Caruso era incalzato  dagli spettri dei 17 soldati dell’esercito uccisi nella contrada Beneventana, Francavilla, dei 7 proprietari ricattati e trucidati lungo la Sannitica nelle circostanti campagne , dagli spettri delle 5 Guardie Nazionali di Paduli, dalle 12 di Circello e dalle altre 18 di Orsara  fucilate e seviziate !!! Era incalzato ed atterrito dagli spettri delle 10 guardie Nazionali di Torrecuso  fucilate presso Benevento all’Olivola  e  dei due pedoni del  telegrafo fucilati a Masti, dai 14 infelici resi cadaveri presso Colle, di 27 tra uomini, donne e fanciulli massacrati a Castelvetere, dagli spettri di 31 Guardie  Nazionali di San Bartolomeo in Galdo, dai massacri dei Camerelle, dei 7 individui tra uomini e donne della famiglia Leali trucidati a Casci presso Morcone , dei 6 campagnoli presso Cubante, dei 13 contadini scannati  di sua mano con rasoio presso S. Severo, era incalzato ed atterrito dagli spettri delle sue amiche uccise sol perché erano incinte, di parecchi suoi compagni perché sospetti e di tanti altri che la mente rifugge dal ricordare gettati  per le campagne, nei burroni e nelle fratte al pascolo degli animali».

CONCLUSIONI DELLA RICERCA

Come ripartire le responsabilità di questo complesso fenomeno storico? Riprendiamo le parole che Giordano Bruno Guerri scrive nelle conclusioni del suo già citato Il sangue  del Sud: «Gli uomini che hanno fatto il Risorgimento erano uniti dalla convinzione che l’Italia finisce al Garigliano.  Al di sotto di quel fiume c’era una non Italia coperta di piaghe, derelitta, ferita dalla propria storia e da retaggi cancerosi. Una colonia imbarbarita da educare e, soprattutto, da curare, come si conviene a un medico saggio quanto impietoso. Il popolo che la abitava era separato dal progresso non per motivi storici ma per diversità di razza come sostenne lo storico liberale Filippo Antonio Gualtiero agli inizi degli anni Cinquanta. Questa sconcertante affermazione razzistica si accorda con quelle, contemporanee, di Gioberti, di Farini e di tanti altri politici settentrionali che rinforzarono  lo stereotipo  dell’opinione pubblica e nella classe dirigente. […] Fu naturale che i meridionali – anche chi non aveva preso le armi – fossero equiparati a non oppositori, bensì a nemici. Forestieri e nemici, per di più senza moralità e senso civico. […] Per questo il brigantaggio fu scambiato tout court per una naturale inclinazione antropologica alla disobbedienza e all’anarchia, mentre era qualcos’altro: anche un effetto di politiche sbagliate e la conseguenza di una mentalità repressiva. Il coraggioso controcanto di Pasquale Villari, autore delle Lettere meridionali (1875), rimase sostanzialmente inascoltato. Il legame proposto dallo storico napoletano tra brigantaggio e questione agraria e sociale, lo studio scabroso e illuminante sullo stato delle province meridionali, il resoconto veristico delle condizioni di vita dei contadini  nei campi  e dei minatori nelle solfare, del conseguente proliferare della mafia e della camorra disturbavano i compiacimenti schizzinosi della borghesia del Nord più opulenta. Villari puntava il dito contro la politica  governativa, incapace di dare una speranza a una massa di miserabili, auspicava l’adozione di un modello amministrativo nuovo, improntato alla giustizia sociale e capace di  limitare le angherie dei proprietari  terrieri sui contadini. Quando le condizioni effettive delle regioni del Sud, non  poterono più essere riconosciute o mascherate, tutti i governi – prima la Destra, poi la Sinistra – nel migliore dei casi si limiteranno a considerare un problema di ordine pubblico, peraltro collocato a una distanza siderale, anche geograficamente, dal resto della nazione. In sintesi la questione c’era, ma era loro, non nostra. […] Di questo processo educativo o, meglio, riabilitativo, i meridionali hanno naturalmente avvertito soprattutto l’aspetto di coercizione: la rivolta contro il piemontese usurpatore nasce dalla colpevolezza di essere trattati come cittadini inferiori, da portare sulla retta via con l’uso della forza. Difficile dare loro torto. Tali presupposti spiegano perché gli eredi di Cavour hanno fallito: non capirono quanto un’altra gestione sarebbe stata più efficace e conveniente per combattere il sentimento di estraneità e di incomprensione che alligna ancora oggi nei pregiudizi settentrionali come nei vittimismi meridionali, difficili da cancellare e altrettanto fatalisti. La storia non può tornare indietro – scrive Giordano Bruno Guerri – ma dopo  un secolo e mezzo di dualismi economici, ritardi sociali e culturali, cattiva amministrazione; dopo un secolo e mezzo di questione meridionale la domanda da porsi è: si poteva fare diversamente? Degli errori del passato si può fare tesoro. Può essere utile la lezione di pensatori e studiosi come don Luigi Sturzo o Guido Dorso che già nei primi decenni del Novecento auspicavano una maggiore autonomia, condizione necessaria per lo sviluppo del Sud. Il che non significa rinunciare alla solidarietà  del centro verso la periferia e delle regioni ricche nei confronti di quelle povere. Di chi la colpa?  È superfluo, oggi, riformulare la domanda che, primo fra tutti, si pose  Pasquale Villani nel 1866, quando i nodi di un’unificazione imperfetta erano ormai venuti al pettine, dopo sei anni di guerra civile. Piuttosto, sarebbe fondamentale, per la crescita  della nostra educazione storica, cominciare a rileggere il passato, senza idee preconcette. […] Il mito della rivolta sociale a sfondo contadino –  continua Giordano Bruno Guerri –  trovò nel brigantaggio, per decenni e decenni, suggestioni fascinose. La lotta e la resistenza dei briganti furono evocate come un nobile esempio, almeno fino agli anni Sessanta del Novecento, da sindacalisti, contadini e braccianti alle prese  con rivendicazioni, scioperi, battaglie. Una certa estetica della guerriglia mise sullo stesso piano Carmine Crocco e Che Guevara, in una comune epopea dell’emancipazione dei poveri e dei sfrattati. Insomma, il sogno di una rivoluzione da affidare  alla rabbia repressa dei contadini avrebbe trovato linfa vitale nelle imprese dei briganti, assurti al rango di mitici combattenti per la libertà. Un’altra strumentalizzazione della questione meridionale e del brigantaggio è quella dei cantori della diversità meridionale, calpestata dalla barbarie sanguinaria dei piemontesi, dipinti come antesignani  dei nazisti, mentre  il passato borbonico viene riletto in modo addirittura apologetico. Si tratta, in ogni caso, di interpretazioni che manipolano  la realtà del Risorgimento». In merito alla “Questione meridionale” aggiungo qualcosa, senza l’ardire di paragoni con lo studioso toscano o con gli altri studiosi della materia. Tale espressione venne usata  per la prima volta nel 1873 dal deputato radicale lombardo Antonio Billa, per definire la disastrosa situazione economica e sociale del Mezzogiorno. In questi ultimi anni, la controversa e mai tramontata  “Questione” è stata riportata sotto i riflettori da alcuni saggi come i  testi di Pino Aprile, Se muore il Sud di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (Feltrinelli 2011) e i libri  di Marco De Marco, da Bassa Italia (Guida 2009) Terrorismo (Rizzoli 2011). Se il Sud è rimasto in queste condizioni di disagio e arretratezza, a chi dare la colpa? Ai  meridionali? Ai settentrionali? Alle classi dirigenti del Mezzogiorno? Alle celebri parole di Roberto Bobbio («Una cosa è diventata ai miei occhi sempre più chiara, e sempre più difficilmente confutabile: la questione meridionale è prima di tutto una questione dei meridionali»), accostiamo la riflessione di Emanuele Felice, abruzzese nativo di Vasto, docente di Storia all’Università autonoma di Barcellona, tratta dal suo Perché il Sud è rimasto indietro (Il Mulino 2014): «Se i meridionali  furono sfruttati da qualcuno, per la più grande parte della storia dell’Italia unita, ebbene lo furono dalle loro stesse classi dirigenti. Quelle del Gattopardo, per intenderci, disposte a cambiare tutto – ad accettare  l’Unità, poi la modernizzazione, finanche la democrazia  di massa – purché nulla cambi. E specie negli ultimi decenni gli sfruttati furono essi stessi complici, volenti o piuttosto nolenti, attraverso il voto clientelare. Stando così le cose, scaricare tutte le colpe al Nord a me pare non solo un’indebita autoassoluzione, ma soprattutto un inganno ideologico: l’ennesimo affinché nulla cambi dentro la società meridionale». Recensendo il saggio di Felice, Giancristiano Desiderio scrive sul Giornale  del 17 gennaio 2014: «Lo storico abruzzese punta il dito sulle classi dirigenti meridionali  che dall’Ottocento ai giorni nostri – quindi dal barone, al galantuomo, ai possidenti, ai mediatori politici di ieri oggi domani – hanno lavorato per conservare  le cose come stanno sfruttando, loro sì, la propria  posizione  di dominio sulla società meridionale. Anzi le classi dirigenti meridionali, sono bravissime nel creare una narrazione che le assolve e individua in altro – il Nord, le geografia, l’economia – il ritardo del Sud».

Per finire, alcunepillole” come spunti per ulteriori riflessioni e confronti:
«Gli abitatori di Napoli son così poco industriosi che non trafficano fuori del loro paese, e non solo non trafficano in Europa, ma anche in Italia, né hanno le industrie del paese loro stesso, ma vengono a farle gli abitatori di altri luoghi». (Fonte: Breve Trattato, Napoli 1613, di Antonio Serra). «È un errore considerare forti soltanto i popoli o gli individui che dispongono di maggior danaro, e di attribuirne la presenza al caso o alla fortuna, che dominano negli eventi umani. Il vero è invece che popoli deboli son quelli soli che vivono nell’ignoranza». (Fonte: Trattato Della Monet, Napoli 1750, di Ferdinando Galiani (1728-1787), detto l’abate Galiani).  «Il fatto vero è che l’Italia  meridionale divenne paese di conquista, appunto per effetto della sua precoce civiltà, e che cessò di essere indipendente, proprio quando la raffinatezza dei costumi e le arti più squisite della pace rammollirono  gli animi e vi educarono a poco a poco la desuetudine dal duro mestiere delle armi. Non sarebbe perciò il caso di adontarsi di un privilegio nefasto, che accomuna la sorte della Magna Grecia a quella della Madre-patria, pur così benemerita per l’educazione dello spirito umano, e che anticipa il fato miserando d’Italia nell’età della Rinascenza». (Fonte: Atti della Società Storica Anno I, Fascicolo I. – Il disagio economico del mezzogiorno, 30  aprile 1922 – Direttore Enrico Cocchia).  «Al mondo non esistono esseri corrotti, ma soltanto uomini che vivono in volontaria ignoranza». (Socrate rivolto agli Ateniesi).

 EPILOGO

Come si evince dai registri delle Prefetture della Capitanata e di Benevento, i sanbartolomeani  dediti al brigantaggio furono soltanto sei: Beniamino D’Aiuto, fucilato il 23 marzo 1864 a Lucera; Antonio Fiorillo, fucilato nel 1861 a San Severo; Antonio Giaruffo fu Giovanni (si ignora la fine); Beniamino Innestato (si ignora chi fosse il padre), detto sargèndëllë  e sicuramente componente della banda di Antonio Secola;  Donato Pacifico fu Antonio, detto monachéllë,  fucilato ad Alberona il 6 marzo 1863 dalla Guardia Nazionale; Marcellino Spallone, fucilato il 5 marzo 1863 a San Marco in Lamis. Per inquadrare il dato, dobbiamo  considerare – come già riferito – che in tutta la Campania, nel periodo 1861-1865, dai dati ufficiali diffusi dalla Commissione parlamentare sul brigantaggio  pubblicati da Franco Molfese,  i briganti arrestati, uccisi e fucilati furono più di 13mila ( 5.212 uccisi o fucilati, 5.044 arrestati e 3.597 consegnatisi ai “piemontesi”). Per tutto il Mezzogiorno, invece, per il decennio 1860/1870 mancano ovviamente cifre precise, ma secondo le stime le vittime si possono così riassumere: da parte piemontese, 21.120 caduti in combattimento, un migliaio di uomini morti per malaria o altre malattie, circa 800 dispersi; tra i briganti, 123mila fucilati, 130mila feriti, 43mila deportati, 10.700 condannati all’ergastolo e 383mila condannati a varie pene. I paesi completamente distrutti furono 41. Da parte di chi scrive, a questo punto, un solo pensiero:  alle vittime di questa tragedia,  va il mio onore incondizionato, perché  dal loro sacrificio è derivato il bene dell’Unità nazionale. Essa rappresenta la più importante conquista storica-politica conseguita da noi abitanti di questa penisola. Senza i “Piemontesi”, come si usava indicarli, il nostro Meridione – che oggi, chissà, ancora sotto una moderna incarnazione di quel Regno di Napoli – sarebbe «Un posto pieno di bordelli e case da gioco». Parole di un pazzo? No: sono le parole colorite che ho sentito pronunciare  il giorno 25 agosto 2017,  presso la biblioteca comunale di San Bartolomeo in Galdo e  in occasione di un convegno sulla “Marcia della Fame”,  dal professore Guido D’Agostino, napoletano veracissimo, classe 1942, docente di Storia moderna e del mezzogiorno  dell’Università Federico II,  non certo un autore di «libri e libercoli», come direbbe Marcello Veneziani. Tra  le altre cose, nel corso di questo interessante incontro, il professore D’Agostino ha dichiarato:  «Attraverso la memoria possediamo il corso della storia, senza conoscenza storica commettiamo errori. La memoria è quel dono che arriva al cuore della gente e ci permette di trasmettere il sapere a quelli che non c’erano».
A conclusione: un umile e doveroso omaggio al nostro grande storico locale, Gianni (Giovannino) Vergineo (1922-2003), attraverso due suoi saggi:

  • Fortore solitario del 1998 : «L’unificazione nazionale non porta in queste terre che uno strazio maggiore, perché schiera a difesa del fronte borghese il carabiniere, l’ufficiale giudiziario, il militare: tribunali, questure, prefetture. Ai signori nati subentrano i signorotti togati. Resta in sella la stessa classe dirigente imperterrita e spietata, refrattaria ad ogni spirito di autentica modernità. Spazzati via gli enti ecclesiastici, le assistenze e le beneficenze di origine cattolica; ridotti i demani nelle mani dei galantuomini; ristretti gli spazi di movimento della povera gente, la lotta per la sopravvivenza diviene disperata. La storia moderna di San Bartolomeo in Galdo prende un abbrivio anticontadino: muoiono di fame. Il brigantaggio contadino è finito: quello  dei galantuomini è rimasto. Non contro lo Stato ma dentro lo Stato».
  • San Bartolomeo in Galdo dalla libertà feudale alla libertà moderna, del 2002: « – Premessa – Nella mia lunga e intensa attività educativa, insofferente del sistema di violenze didattiche in uso nelle scuole, sono stato sempre alla ricerca di espedienti metodologici idonei a portare alla mente dell’interlocutore il senso del messaggio culturale, nel modo più efficace possibile. Le vie praticate e le variazioni metodologiche non si contano, nel continuo cambiamento dei fattori, dei mezzi, dei fini implicati nelle diverse circostanze. Ma un punto mi è stato sempre chiaro: cercare nella farragine dei materiali il tema più sintonizzante con la trama degli interessi vivi dei soggetti che siano ancora sentiti corrispondenza  E lì, in quel centro di gravità, cogliere i problemi della vita, che siano ancora sentiti come nostri bisogni esistenziali, sulla dimensione di un’umanità, che, nel cambiamento, resta se stessa nella sua prodigiosa versatilità. La scienza non è scienza senza una prospettiva didattica di ampliamento degli orizzonti conoscitivi.

È questo il fine del presente saggio su San Bartolomeo in Galdo, più agevole degli altri tentativi del genere, per il fatto che si tratta del mio  paese nativo, e credo di avere un’idea della sua anima comunitaria. Qui sono insieme docente e discente. Il mio desiderio è capire e farmi capire. Perciò,  onde evitare  appesantimenti  eruditi e dare al discorso, sempre accoratamente  filtrato da una mediazione riflessiva sulle fonti, una linea di continuità (dalla libertà feudale alla libertà moderna) e insieme il ritmo  delle sequenze tematiche in evoluzione, ho ritenuto didatticamente  pertinente liberarlo da notazioni devianti o depistanti, rimandando alla fine le questioni filologiche e bibliografiche. E ciò senza dimenticare mai il principio fondamentale dello storicismo moderno: quello che postula la contemporaneità della storia, che, nel caso presente, significa anche apertura didattica alla esperienza socio-culturale e ideologica del nostro luogo e del nostro tempo. Questa era l’intenzione prima di intraprendere il lavoro. Se non ci sono riuscito, ne  chiedo umilmente perdono. E, in ogni caso, il mio povero dono di parole valga almeno come testimonianza di antico affetto per il paese che mi ha dato la vita: i sentimenti, i pensieri, i sogni più belli e più cari. Ed ora mi dà  l’occasione di rinascere attraverso la sua storia. A dire del poeta la fossa dei serpenti si riapre.

Ad meliora et maiora semper – Watanga!
Paolo< Angelo Furbesco
Milano, 2 agosto 2018

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