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Lelletto, il Moretto, Bucefalo e Settimio Terracina. I quattro pugili del Ghetto raccontati da Lapo Palumbo Parte seconda

Seconda parte

“tutti riceviamo un dono.

Poi, non ricordiamo più

né da chi, né che sia.

Soltanto ne conserviamo

-pungente e senza condono-

la spina della nostalgia”

                                                                        “Generalizzando” di Giorgio Caproni

“La morte è un paravento di fumo fra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passare dall’altra parte e trovare le solidali dita di chi ci ama”

                                                        da “la diceria dell’untore” di Gesualdo Bufalino

“La boxe è qualcosa di innaturale, perchè si fa sempre tutto al contrario. Invece di allontanarti dal dolore, come farebbe qualunque persona sana, gli vai incontro”

Morgan Freeman

Il pugilato non è solo uno sport; è per molti versi la spettacolarizzazione delle qualità che una persona dovrebbe avere: coraggio, tenacia, costanza, pazienza, esperienza, forza di volontà. C’è bisogno di una giusta armonia tra difesa e attacco.

Non per niente è detta la “nobile arte”.

Il pugilato è impegnativo e completo e necessita di prestanza atletica, ma anche intelligenza e perseveranza.

Ogni pugile si disciplina attraverso un costante e duro allenamento, affinando tecnica e stile. Potenziando i propri colpi: jab, upper-cut. Si presenta all’avversario a torso nudo, difendendosi solo con la forza delle proprie braccia e la propria intelligenza.

Per questo è assurto a simbolo dell’uomo che diventa vincitore con la sola forza del proprio corpo.

Dall’antica Grecia dove faceva parte dell’educazione di ogni giovane uomo, si passò ai tempi dei cesari e dei gladiatori, dove il pugilato divenne più cruento e si combatteva a mani nude e spesso gli incontri finivano in tragedia. Con la caduta dell’impero, la passione per il pugilato diminuì. 

In Gran Bretagna, con la rivoluzione industriale e l’affermazione di una classe di lavoratori occupati e spremuti, il pugilato “rinacque” e riacquistò una dignità. Si ebbero delle regole: si iniziarono a indossare i guantoni; si combatteva in una area delimitata; la vittoria veniva sancita dopo un K.O stabilito da un arbitro.

Dalla Gran Bretagna, a fine ‘800, la “boxe” sbarcò negli Stati Uniti d’America e qui divenne uno sport molto seguito. Gli incontri venivano accolti da un grosso pubblico e si trasmettevano alla radio. Attorno alla boxe e soprattutto nella categoria dei pesi massimi, giravano molti soldi. Gli spettatori scommettevano ingenti somme sulla sfida e ai pugili venivano pagati grossi premi in denaro.

Agli inizi del ‘900, il pugilato si diffuse anche in Europa e rapidamente in Italia e in ogni città nacque una palestra di pugilato.

In Italia arrivò abbastanza presto, verso l’inizio del ‘900 e si diffuse un po’ ovunque, tanto che nel 1916 a San Remo potè nascere la FPI (Federazione Pugilistica Italiana). La sede si trasferì prima a Milano, poi nel ’29 a Roma, la città che stava diventando il fulcro del nuovo impero.

Il fascismo, che aveva adattato lo sport alla propria retorica, puntò molto sul pugilato; mentre per le classi popolari fu una occasione di riscatto e poterono riversare nel nuovo cruento sport tutte le proprie frustrazioni, gioie e dolori. Il pugilato si prestava bene al bisogno di pubblicizzare la propria immagine delle nascenti dittature. I nuovi regimi erano in perenne ricerca di modelli di uomini forti, prestanti, indomiti e dalla tempra d’acciaio. Attraverso lo sport si sarebbe forgiato l’homo novus.

A Roma si passò dalle risse tra ragazzi, dalle sfide tra quartieri al ring.

Ogni quartiere aveva la sua palestra. Ognuna sfornava un campione.

Nel Ghetto ebraico di Roma, salire su un ring poteva essere una occasione di riscatto.

Lazzaro Anticoli, figlio di Settimio Anticoli e Fortunata Efrati, nasce a Roma il 7 aprile 1917.

La famiglia è povera e nel Ghetto seviva per racimolare qualcosa. Il ragazzo ci sapeva fare e si fece strada nel mondo del pugilato non professionista: giovanissimo fu considerato una promessa.

Era un ragazzo come tanti nel Ghetto, ma con un buon cazzotto.

Qualche incontro, scazzottate per le vie di Roma e qualche lavoretto saltuario, sognando di fare il grande incontro che lo avrebbe lanciato e fatto guadagnare.

E le possibilità c’erano tutte, se non fossero arrivate le leggi razziali ad interrompere il sogno. Le nuove disposizioni gli vietano il ring e non solo: lavorare per un ebreo diventa sempre più difficile. Fa l’ambulante per campare.

Comunque è felice in quei giorni e il matrimonio con Emma di Castro è un bel momento per lui. Ma non vuole arrendersi a coloro che gli impediscono di vivere liberamente.

Decide di iniziare a collaborare con le organizzazioni clandestine antifasciste.

Nell’ottobre del ’43 riesce a sottrarsi con i suoi cari al rastrellamento operato dai nazisti nel ghetto di Roma: dei 1000 ebrei presi solo 16 sopravvivono ai lager.

Lazzaro inizia a vivere in clandestinità.

Il 23 marzo 1944 viene riconosciuto da una spia ebrea al servizio dei nazifascisti e segnalato ad un gruppo di camicie nere. Viene arrestato a Roma il 24 marzo 1944.

Bucefalo non si lascia prendere con facilità. Non è remissivo. Affronta gli assalitori e con il mancino stende tutti al tappeto. Ma se il braccio è forte non lo è atrettanto la caviglia e per questo bloccato e portato nella famigerata via Tasso.

Gli avvenimenti si intrecciano e Roma, città aperta, è il palcoscenico di mille fatti.

Negli stessi giorni dell’arresto di “Bucefalo” avviene un fatto importante e grave: la bomba fatta scoppiare in via Rasella e la successiva ritorsione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Il 23 marzo 1944, in via Rasella, una via del Rione Trevi a Roma, tra le 15,30 e le 16,00 vi fu un attentato dinamitardo: fu collocato un ordigno esplosivo e furono lanciate quattro bombe a mano. Obiettivo: 11° Compagnia del Polizeiregiment “Bozen”, il reparto militare della polizia d’ordine, creato in Alto Adige dopo l’8 settembre del ’43, durante l’occupazione tedesca della regione con coscritti forzati altoatesini. Gli uomini della truppa, tutti di provenienza dalle provincie di Belluno e Bolzano, ricoprivano tutti il grado più basso dopo quello di allievo e considerati alla stregua di traditori dagli ufficiali. Il compito della compagnia era di fare la guardia agli stati maggiori tedeschi nella città occupata e nelle zone limitrofe.  Era vitetata la libra uscita per impedire ogni contatto con la popolazione romana. Era impedito anche recarsi in chiesa. A Roma alloggiavano nelle soffitte del Palazzo del Viminale, ex sede del ministero dell’Interno.

L’arruolamento era stato obbligatorio. Gli ufficiali invece provenivano dalla Germania.

In attesa del proprio turno nella rotazione di servizio, non avendo particolari incarichi oltre al sevizio di guardia al ministero dell’Interno, l’11° Compagnia fu sottoposta a una attività di addestramento supplementare.

Tutte le mattine marciavano fino al poligono. Poi alle 14,00, facevano ritorno alla base seguendo sempre lo stesso percorso: piazza del Popolo, via del Babuino, piazza di Spagna, via dei Due Macelli. All’incrocio con via del Tritone, la colonna continuava per via del Traforo pe poi svoltare in via Rasella. Il maggiore Hans Dobek voleva evitare il traffico del centro.

La colonna marciava cantando, divisa in tre file con un sottufficale davanti a ognuna e con alla testa il comandante della compagnia. Si voleva dare una immagine di forza. Quella immagine ai soldati sembrava ridicola, ai partigiani macabra e provocatoria.

Questa ripetitività fu il motivo per cui i militanti del GAP scelsero l’11° Compagnia il 23 marzo, anniversario della fondazione dei Fasci italiani di combattimento. Lo scopo dei partigiani era quello di “scuotere la maggioranza della popolazione civile dallo stato di attesa passiva in cui versava” e “indurre i tedeschi al rispetto dello status di Roma città aperta, smilitarizzando il centro urbano”.

L’ordigno fu nascosto in un carretto da spazzino.

Morirono 33 militari tedeschi e due civili italiani, mentre rimasero feriti 53 soldati tedeschi e 11 civili italiani. Altre quattro persono caddero sotto il fuoco di reazione immediata tedesco

Il giorno dopo la rappresaglia tedesca consumò l’eccidio delle Fosse Ardeatine in cui furono uccisi 335 prigionieri completamente estranei all’azione gappista, tra cui dieci civili rastrellati nelle vicinanze di via Rasella immediatamente dopo i fatti.

Le 335 vittime furono prese fra i detenuti nel IV braccio del carcere di Regina Coeli e nelle celle del comando Sipo-SD di via Tasso . A questi furono aggiunti tutti gli ebrei che nel III Braccio di Regina Coeli erano in attesa di essere trasferiti nel campo di Fossoli e poi deportati. Il nome di Lazzaro Anticoli verrà inserito all’ultimo tra quelli destinati alle Fosse Ardeatine, forse per uno scambio di prigionieri. Pare che lo scambio fu chiesto da Celeste di Porto, ebrea del Ghetto anch’essa, povera, ma con il desiderio di emergere, che facendo leva sulla propria bellezza, convinse molti fascisti ad assoldarla tra le pripria fila. Divenne una delle più temibili delatrici dei suoi correligionari. Proprio per il suo ruolo e per la sua spregiudicatezza le fu dato il nome di “Pantera Nera”. Nel Ghetto per la sua bellezza (si dice fosse la ragazza più bella del Ghetto, la descrivono alta, slanciata, capelli e occhi neri, un seno prosperoso e la bocca carnosa), fu soprannominata “Stella”, ma dopo le sue frequentazioni, iniziarono a chiamarla “Stella Ria”.

Era la quinta di otto figli. Tutti sopravvissero, tranne il padre che saputo della figlia si consegnò alle SS. Fu deportato e morì in un campo di concentramento.

Il passaggio “all’altra parte”, avvenne proprio dopo il 16 ottobre, quando tutta la famiglia scampò al rastrellamento.

L’avvenimento la portò davanti ad un bivio. C’era da scegliere tra una vita da clandestina, fatta di stenti e pericoli e una vita alla luce del sole, magari fatta di agi.

Scelse la seconda. Scelse la bella vita. Scelse l’amore, perchè si innamorò di Vincenzo Antonelli, milite fascista, cacciatore di ebrei e membro di una banda paramilitare, detta la Bardi-Pollastrini, che agli ordini di Kappler, andava in cerca di ebrei e si arricchivano confiscando i loro beni. Addirittura molti gerarchi della RSI si dissociarono da queste bande (tristemente famosa fu anche la banda Koch) per la loro crudeltà, vigliaccheria e brama di denaro. “Massacratori all’ingrosso”, li definirà Ferruccio Parri.

Dopo l’attentato di via Rasella, la Pantera Nera, segnalò il nascondiglio di 26 ebrei.

Nell’elenco dei prigionieri condannati era stato inserito anche il fratello di Celeste di Porto. Per salvarlo lei, in cambio, fece il nome di Lazzaro Anticoli.

Prima di essere prelevato e portato verso il suo destino, Lazzaro scrisse sul muro della cella 306 di Regina Coeli: “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mia è colpa de quella venduta de Celeste, Arivendicatemi”.

Tragicamente finisce la vita di Bucefalo, legato non solo da parentela, ma anche da un legame ormai indissolubile come il destino.

Destino che lo lega a Leone Efrati e a un altro pugile del ghetto.

Settimio Terracina crebbe e si allenò nel Ghetto.

Settimio era un medio massimo di 1 metro e 85 dal fisico scolpito prima nella palestra pugilistica “Cristoforo Colombo” e poi alla “Trastevere”.

Nel ’34 è campione dei novizi“; nel ’35 conquistò il premio “cintura di Roma” e sulle pagine dei giornali di regime, come il “Littoriale”, vi erano titoli come “Terracina è un elemento di sicuro avvenire”.

Grazie alla conquista della cintura la Nazionale di pugilato lo convocò per il ritiro preolimpico di Senigallia. Con tutta la nazionale andò a Berlino per le Olimpiadi, ma non potè partecipare.

I giochi olimpici a Berlino furono una grande occasione per la Germania nazista per aumentare il proprio prestigio internazionale e far tacere molte critiche. Josef Goebbels, ministro della propaganda, se ne occupò personalmente. Fece stanziare ingenti somme di denaro per stupire il mondo e fece in modo che ogni tedesco potesse avere in casa un “Volksempfànger”, l’apparecchio radiofonico dal quale poter sentire in diretta la voce del Fùhrer.

Furono i giochi di Adolf Hitler e Jesse Owens; di Leni Riefenstahl e Ondina Valla, prima donna italiana a vincere una medaglia d’oro negli 80 metri a ostacoli.

A Berlino, Settimio rimase impressionato dall’atmosfera cupa e di intolleranza nei confronti degli ebrei.

L’anno dopo a Ferrara partecipò ai campionati europei. Forse memore di quello che ha visto, partecipa indossando un paio di pantaloncini su cui è in bella mostra una stella di David e la scritta “Shadday”, simbolo di protezione per il suo popolo. Ma la scelta viene vista come un affronto dalla stampa di regime e dai gerarchi. Settimio perde e “ben gli sta”.

Siamo alla vigilia delle leggi raziali. Come già detto, tutto cambia per le persone e non importa che fossero ebrei, rom o “italiani”. L’appartenenza era questione di allocazione, più che di genetica.

Dopo gli incontri di Ferrara, Settimio tornò nella sua palestra, ma fu cacciato via.

Un affronto.

Cercò di tirare avanti, ma era dura. Combattè altri 63 incotri, ma non potè incassare i soldi in quanto ebreo. Pure la carriera militare gli fu preclusa in quanto ebreo.

Nel ’41, grazie all’interessamento del puglile Leone Efrati, coetaneo ed ebreo anche lui, viene convinto ad espatriare. E il segretario della Federazione Pugilistica Italiana, lo aiuta a trovare i documenti necessari per sbarcare negli Stati Uniti.

Settimio aveva con se 500 lire e a Chicago, dove si stabilì, non potè che continuare la carriera di pugile.

Nei 10 match disputati negli Stati Uniti ottenne sei vittorie, tre pareggi e una sconfitta. Divenne per tutti “Terry Terracina”.

Attorno a lui però camminavano personaggi di dubbia moralità, scorrevano fiumi di denaro. “Io sputo sangue e gli altri prendono i soldi”. Il pugilato americano inizia ad andare stretto a Terry.

E il fato ci mise una mano, giocandogli uno strano scherzo.

Nel ’41 gli Stati Uniti decidono di entrare in guerra. Agli italiani che erano presenti sul territorio e che erano sprovvisti di cittadinanza americana, vengono date due possibilità: essere internati in campi di lavoro come “collaboratori di Mussolini”, o prendere la cittadinanza e combattere per gli USA.

Settimio venne arruolato nella V Armata, una delle formazioni a cui, per l’attività svolta nel Mediterraneo, fu affidata la responsabilità di pianificare l’invasione americana in Italia.

La V Armata sbarcò a Salerno tra il 9 e il 18 settembre 1943 per aggirare la linea Gustav e prendere i tedeschi impegnati con le forze britanniche a Cassino, alle spalle.

Per aggirare lo schieramento tedesco un gruppo venne staccato e fatto sbarcare ad Anzio, permettendo alla V Armata di sfondare la linea Gustav e convergere su Roma e liberarla.

Settimio fu tra quelli che sbarcarono ad Anzio. Così potè tornare nel ghetto, ma non trovò più nessuno: il 16 ottobre gli ufficiali delle SS erano piombati in casa sua. Tutta la famiglia era stata presa e portata via. Si erano salvati solo i figli della sorella di Settimio, provvidenzialmente messi in salvo prima. Il 16 ottobre fu un triste giorno per il Ghetto, per Roma e l’ Italia intera.

Tante persone furono portate via senza nessun motivo. Tante famiglie furono divise.

A chi toccò vivere; a chi morire?

Come sopravvissero fu solo questione di fortuna.

Con l’arrivo degli americani, Roma si sentì libera da un giogo pesantissimo.

Insieme a tutta la V Armata , fece rientro negli Stati Uniti nel settembre del ’45.

Visse il resto della sua vita a Chicago, dove conobbe sua moglie Marisa Monsacrati, ed ebbe una figlia che chiamò Lisbeth. Grazie ai soldi ricevuti per il servizio militare aprì una pizzeria e conobbe Primo Carnera.

Settimio Terry Terracina morì a Chicago nel 1985.

Bibliografia:

“Libro della Memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia 1943-45” di Liliana Picciotto . Milano; Mursia 1991.

“L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria” di Alessandro Portelli; Donzelli 2005.

“La parola ebreo” di Rosetta Loy. Torino, ed. Einaudi 1997.

“Stella di Piazza Giudia” di Giuseppe Pederali, Giunti Editore 2018.

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