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Lelletto, il Moretto, Bucefalo e Settimio Terracina. I quattro pugili del Ghetto raccontati da Lapo Palumbo Parte terza

“Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l’andatura. E il vento cambia andatura per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo.” 

                                                               Haruki Murakami da “Kafka sulla spiaggia”

Io sono un filo d’erba

Un filo d’erba che trema.

E la mia Patria è dove l’erba trema.

Un alito può trapiantare

Il mio seme lontano.

                                                                        “Mia Patria bella” di Rocco Scotellaro

Il 24 marzo sarà l’anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Sono trascorsi 75 anni da quel giorno.

Ho parlato in queste righe di diverse cose, tutte affini ad un tema, quello storico della

II Guerra Mondiale. Ho parlato di pugili e del loro coraggio, di persone comuni, che con sprezzo del pericolo, magari senza impugnare armi, hanno cercato di porre un argine alla barbarie nazista e fascista, anche se piccolo piccolo, con un piccolo atto di generosità. Ho parlato di Roma, “città aperta”, città simbolo, capitale d’Italia e in quel momento al centro della storia. Attualmente vilipesa condannata biasimata e bistrattata, ma nonostante tutto centro della nostra civiltà.

Quei giorni di occupazione nazista della città di Roma, che vanno dal rastrellamento del Ghetto ebraico, sino all’eccidio delle Fosse Ardeatine, sono lo spartiacque tra due mondi, tra due Italie; è la “perdita della verginità” di una nazione, che nazione sino ad allora aveva stentato ad essere, richiamata a rinsaldare le fila al suono delle armi e che da Sud a Nord (perchè il nemico nazifascista, si ritirava inseguito dagli americani, sbarcati in Sicilia). Un cambio che nel dopoguerra fu rappresentato anche da un nuovo governo e da nuove istituzioni.

Non vorrei essere eccessivamente retorico, ma il tentativo di epurazione di una razza, in maniera così sistematica, largamente e palesamente condivisa, il rastrellamento fatto di una comunità italiana, è qualcosa che ha cambiato le loro vite e la nostra società. Non argomento troppo, non è mia intenzioni. Riporto solo delle storie.

Molti in quei giorni si arresero al proprio destino, ma non tutti la pensavano così. Pacifico di Consiglio è uno di questi.

Moretto, come tutti chiamavano Pacifico di Consiglio, classe 1921, era un pugile dilettante che si allenava in una palestra di Trastevere.

Durante gli anni della presa di potere del fascismo, tra le strade della città, Pacifico è un sorvegliato speciale, perchè aveva da subito deciso di non chinare la testa. E dalla data dell’emanazione delle leggi razziali aveva capito e aveva cercato di far capire ai propri correligionari che la rassegnazione era un viatico per la cattiva sorte. Perchè non era facile vivere e il fascismo aveva degradato e corrotto l’animo delle persone: la Shoah fu qualcosa di capillare, che entrò nelle case e nei cuori, con una infinità di soprusi e piccole e grandi vessazioni.

Nel ’43 il Moretto, ebreo, romano, durante l’occupazione nazista sceglie di rimanere in città per dare la caccia ai suoi persecutori. E non è facile perchè spesso il pericolo arriva dagli occhi e dalla bocca di un vicino. La fine, ma spesso anche la salvezza. Spie, delatori, partigiani.

Tra questi si muove Moretto, sfidando per lo più solitario, le bande dei fascisti. Tenendo sempre la testa alta.

Sempre vestito con cura e l’immancabile impermeabile bianco, armato di mitraglietta, dopo la diffusione della notizia dell’armistizio dell’Italia con gli Anglo-Americani, il Moretto, cerca insieme agli altri antifascisti ostacolare l’avanzare della Wehrmarcht. Spaesato e privo di conoscenze politiche, cerca senza riuscirci di aggregarsi ai primi gruppi di partigiani. Vi è l’ebreo Mario Fiorenti che entra a far parte dei GAP, i gruppi di azione patriottica del partito comunista. Paolo Alatri da prima della guerra cela un deposito di armi e una tipografia clandestina. L’editore Ottolenghi, che crea una organizzazione di combattenti. Tanti sono i civili di ogni estrazione che vogliono difendere Roma dall’occupazione.

Dopo aver reso noto l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 (firmato a Cassibile, in Sicilia, il 3 settembre) e alla fuga del re e del governo Badoglio la mattina del 9, Roma, “città aperta”, cioè ceduta per accordo alle forze nemiche per evitarne la distruzione, dal 14 agosto 1943 (lo status venne attribuito tenendo conto del particolare interesse storico della città. Questo non le risparmiò i 51 bombardamenti Alleati tra il 14 agosto e il 4 giugno ’44; e i rastrellamenti e le deportazioni di militari italiani e di ebrei) fu presto occupata dai tedeschi. Già il 9 settembre ci furono scontri tra il regio esercito (chissà se lo era ancora, il re era fuggito, ma pur sempre il sovrano.) e le truppe tedesche, passate da un giorno all’altro da “amici a nemici”. La difesa della città fu molto accorata, parteciparono anche molti civili. Ma i tedeschi se ne impadronirono molto facilmente.

Nelle condizioni di resa di Roma fu chiesto che i tedeschi tenessero conto dell’importanza della città. Ma i tedeschi violarono l’accordo e la occuparono militarmente.

Il feldmaresciallo Albert Kesselring, massima autorità militare in Italia, fece redigere e affiggere un avviso che comparve l’11 settembre sui muri della città, dichiarando Roma “territorio di guerra”. Ovviamente ciò comportava che tutte le azioni atte a colpire il nuovo ordine costituito, sarebbe stato punito in maniera sommaria.

Il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, creò in via Tasso un centro di detenzione e tortura.

I rastrellamenti di ebrei e di persone da destinare ai lavori forzati erano continui. I carabinieri venivano disarmati e arrestati. Il clima di terrore in città era molto teso.

La città divenne per i tedeschi una strategica retrovia militare, da cui transitavano truppe e mezzi diretti al fronte. Roma divenne parte della Repubblica Sociale Italiana, costituitasi il 23 settembre 1943, perdendo il ruolo di capitale.

Dal fronte opposto, sempre in quei giorni, i partiti antifascisti costituirono il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), assumentdosi il compito di dirigere il movimento di liberazione di Roma e di tutta l’Italia occupata.

Il ruolo di dirigere la lotta nell’ambito locale della città di Roma fu assunto da una giunta.

I partecipanti alla Resistenza avevano molti riferimenti ideologici (azionisti, socialisti e comunisti. Ma non mancarono i monarchici).

Tuttavia ogni partito cercò di scavalcare in qualche modo il coordinamento dei militari e civili assunto dal CLN e ogni partito si creò un proprio gruppo armato, contribuendo ognuno a proprio modo alla liberazione della città. Inoltre vi erano gruppi clandestini che non operavano all’interno del CLN e che spesso erano in contrasto gli uni contro gli altri.

Purtroppo quella dei partigiani a Roma durante l’occupazione tedesca fu la lotta di una eroica minoranza, che non riuscì ad armare la grande massa della popolazione. La gente proferiva aspettare passivamente la fine della guerra. Ciò non vuol dire che le persone si risparmiarono nell’aiutare coloro che erano in pericolo o che scappavano da qualche rastrellamento. I casi di aiuti, soccorsi, furono moltissimi.

Kappler, stabilitosi a Roma, creato l’avanposto per le proprie azioni di guerra, pensava anche alla gestione ebraica. Su ordine specifico e tassativo di Himmler, ministro dell’interno del Reich, comandante delle forze di sicurezza della Germania nazista e teorico dell “soluzione finale della questione ebraica”, il pomericcio del 26 settembre, furono convocati il Presidente della Comunità Ebraica, Ugo Foà e quello dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Dante Almansi e fu intimato di consegnare entro 36 ore almeno 50 chilogrammi d’oro. Pena: la deportazione dell’intera comunità.

L’indomani iniziò la raccolta. Martedì 28 l’oro fu consegnato in via Tasso 155, pesato due volte e spedito a Berlino all’ufficio per la sicurezza centrale del Reich. Dopo la guerra l’oro fu trovato intatto in un angolo dell’uffico.

Ma ciò non bastò.

La sera del 15 ottobre 1943, qualcuno chiese di convocare i capi famiglia perchè aveva saputo che sarebbero arrivati i soldati tedeschi a prendere tutti.

Nessuno le diede rettaperchè era Elena la matta e un fatto così grosso era sicuramente frutto della sua povera fantasia.

È il 16 ottobre. Un’alba di un sabato mattina del 1943, festa del Succot, la festa che ricorda agli ebrei la vita del popolo di Israele nel deserto durante il loro viaggio verso la terra promessa.

I camion e 365 soldati della “Judenoperation” bloccarono via di Sant’Angelo in Peschiera, via del Teatro di Marcello e gli altri accessi al Ghetto. Diedero un biglietto dattiloscritto al rabbino capo in cui ordinavano a tutti gli ebrei di prepararsi nel giro di 20 minuti e portare con sé tutto il necessario per un trasferimento di 8 giorni: viveri, soldi e preziosi. Sarebbero stati portati via anche i malati perchè “nel campo dove vi porteranno vi è anche una infermeria”.

Verranno caricati 1259 romani; 237 furono subito rilasciati, perchè giudicati “cittadini stranieri”.

Gli altri furono portati nella stazione Tiburtine e fatti salire su 18 vagoni bestiame e trasferite ad Auschwitz. Di questi deportati tornarono appena in 16 e di questi solo una donna, Settimia Spizzichino.

Tra i sei milioni di vittime del nazifascismo, si possono contare circa sessantamila atleti, di cui 220 di alto livello

Pacifico di Consiglio sfugge per un pelo al rastrellamento e decide di combattere Luigi Roselli, uno dei più crudeli collaborazionisti dei nazisti, che nei giorni dell’occupazione aveva messo su una organizzazione di ricatto e morte. In maniera fraudolenta, in cambio di soldi, prometteva agli ebrei  ciò che non poteva mantenere: la libertà.

Il Moretto, mise in atto un piano temerario per aiutare le vittime, andando a sfidare “in casa” il Roselli: di bell’aspetto, pur fidanzato con la Ada, fece innamorare di sé la nipote di Roselli, le da appuntamenti clandestini e grazie alle informazioni avute da questa, lancia una sfida alle bande comandate dal colonnello Kappler. Pur catturato, diverse volte riesce sempre a sfuggire, continuando a combattere e depistare spie, delatori, poliziotti e fascisti. Anche quando la cattura sembra certa, cosa fatta. Quando viene arrestato, picchiato e portato in via Tasso e poi Regina Coeli.

Quando viene caricato su un camion destinazione Fossoli, a 5 km da Carpi (Modena), il campo di transito per Auschwitz.

Riesce sempre a scappare sempre grazie alla sua tenacia, ai suoi pugni, alla capacità di incassare colpi.

Non abbandonò mai Roma e tornò nuovamente a Portico d’Ottavia, dove era nato e cresciuto.

Per poter ancora aiutare la sua gente, insieme ai nuovi alleati. Che dal giugno del ’44 erano entrate nella capitale.

Finita la guerra, nel marzo del ’47, al processo intentato contro coloro che come Roselli e i suoi accoliti, si erano macchiati dei delitti ai danni degli ebrei e della popolazione inerme, Pacifico di Consiglio diventa uno dei testimoni determinanti per la condanna.

Quando arriva in trinunale, forte del suo metro e ottanta, si fa largo tra la folla, supera lo sbarramento dei carabinieri e molla un destro potente ad uno dei suoi aguzzini.

Ha vendicato Lazzaro Anticoli.

Pacifico di Consiglio per il resto della vita continuerà a lottare e a difendere la propria memoria e quella del Ghetto, della città di Roma fondando nel ’67 l’associazione di volontari per l’incolumità della Comunità ebraica romana. Nel ’75 una risoluzione dell’ONU equiparò sionismo e razzismo: il Moretto portò un asino sotto la sede delle Nazioni Unite nella capitale. Muore nel 2006 a 85 anni e fiero. Un mito per quelli che lo hanno conosciuto.

Mi sembra di vederlo nella sua possenza.

Mi sembra di vederli tutti: il Moretto; Lazzaro Anticoli; Bucefalo; Leone Efrati, detto Lelletto….Già Lelletto….Mi sembra di vederlo mentre combatte ad Auschwitz, incitato bestialmente dai suoi aguzzini. Nessuna parola di conforto, nessuna consolazione per Leone Efrati.

C’è una lapide sulla facciata della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte a Via del Portico d’Ottavia, quasi di fronte alla Sinagoga. Ricorda che “qui ebbe inizio la spietata caccia agli ebrei”.

Un monito, perchè da quel giorno tutto cambiò.

Bibliografia:

“Duello nel Ghetto” di Maurizio Molinari e Amedeo Guerrazzi Osti, ed. Rizzoli, 2017.

“La Shoa in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo” di Michele Sarfatti;

ed Einaudi. Oppuire “Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione” di M. Sarfatti, ed Einaudi.

“16 ottobre 1943” di Giacomo Debenedetti; ed Il Saggiatore, Milano 1958

“Roma sul ring: un secolo di boxe nella capitale” di Luigi Panella; ed Ultra, Roma 2014

“Radio Clandestina. Memoria delle Fosse Ardeatine” di Ascanio Celestini, ed Donzelli, Roma 2005

Come lettura, per comprendere i tragici fatti:

“Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani

“Se questo è un uomo” di Primo Levi 

Questo articolo lo dedico a Carolina, Barbara e Sergio

Fine

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