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Il Risorgimento visto dall’altra sponda

Cesare Bertoletti era un ufficiale piemontese, che fu trasferito a Napoli all’indomani della Prima Guerra Mondiale.

Quando nel 1961 ci furono i festeggiamenti per il centenario dell’Unità d’Italia, l’ufficiale rimase deluso perché negli inviti a Torino dei comuni benemeriti che avevano contribuito all’opera di unificazione, il comune piemontese non aveva invitato nessuna amministrazione meridionale.

Scrisse che se i silenzi sui meridionali e sul valore dell’esercito borbonico, era pur sempre un militare, dovessero seguitare così anche nelle future manifestazioni ufficiali, certamente l’Unità d’Italia rimarrebbe un modo di dire, ma non certo un modo di fare.

Se fosse vivo si accorgerebbe che ben poco è stato fatto per unire effettivamente l’Italia, anzi nell’ultimo ventennio il divario storico si è ulteriormente allargato.

Nel 1967, egli piemontese, diede alle stampe il libro “Il Risorgimento visto dall’altra sponda”. Egli ufficiale piemontese, vincitore a tutti gli effetti di una guerra mai dichiarata, volle riconoscere i meriti di un esercito vituperato e calunniato (l’esercito di Franceschiello) e di un Regno che non aveva nulla da invidiare agli altri stati italiani.

Oggi va di moda il revisionismo storico, a volte si passa all’eccesso opposto descrivendo il periodo borbonico come età aurea, che in realtà non è stata, ma scrivere un libro “revisionista” nel 1967 era un atto di coraggio e di notevole onestà intellettuale.

Il libro va letto, non vogliamo farne un’esegesi. Riportiamo un unico episodio che la storiografia risorgimentale, ci ha sempre tramandato quasi come atto fondativo dell’Italia unita: la battaglia di Calatafimi.

Chi come lo scrivente ha avuto una maestra imbevuta di ideali risorgimentali e patriottici, non potrà dimenticare che all’episodio della battaglia di Calatafimi tra garibaldini ed esercito borbonico è legata la celebre frase di Garibaldi: “Qui o si fa l’Italia o si muore”.

In realtà il nizzardo non ha mai pronunciato tale frase. Il Bertoletti riporta lo scritto di un testimone diretto di quella battaglia, il giornalista soldato Giuseppe Bandi, autore del famoso: I Mille, da Genova a Capua.

Bandi, ferito alla testa in quella battaglia, si considerava doppiamente miracolato.

I garibaldini stavano per avere la peggio, quasi circondati dall’esercito borbonico che era in attesa di sferrare l’attacco decisivo.

Sirtori si avvicinò correndo a cavallo al quartier generale ove erano Garibaldi, Bandi e Bixio, e con voce concitata chiese: “Generale, che dobbiamo fare?”, Garibaldi si guardò intorno e fece una constatazione molto semplice: “Italiani, qui dobbiamo morire”, non la famosa frase “O si fa l’Italia o si muore” ma, una semplice constatazione, qui si muore.

Subito dopo iniziarono i colpi. Al che Bixio rivolgendosi al Generale chiese di ordinare la ritirata, lo stesso Bixio che con sprezzante coraggio, fucilò lo “scemo” del villaggio a Bronte (chi era lo scemo? E noi gli abbiamo anche dedicato una strada a San Bartolomeo).  Garibaldi dopo aver dato un’ultima occhiata all’accerchiamento, rispose: “Ma dove ritirarci?”.

Sappiamo come andò a finire. Il Generale borbonico Landi, invece di concluedere l’opera, fece suonare la ritirata. Quando andò per incassare la somma del tradimento, pattuito in 14000 ducati, in banca gli liquidarono solo 14 ducati e morì di crepacuore. Fu il primo “pacco” che il Generalissimo fece agli ascari meridionali. Tuttavia, il figlio di Landi, ottenne da Garibaldi una lettera di smentita del tradimento del padre. Ci sembra anche normale che il Generalissimo o forse chi per lui, non confermasse di aver pagato per vincere una battaglia e di aver truffato il Landi.

Ci diranno che non è vero, può darsi, noi abbiamo riportato ciò che scrisse Giuseppe Bandi, testimone diretto di quell’impresa.

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