Ho scelto di parlare delle miniere, perché rappresentano una parte della memoria della mia famiglia e hanno, perciò, un valore affettivo. Mio nonno Antonio, che purtroppo non ho avuto l’onore di conoscere, lavorava come minatore in Belgio, più precisamente nella regione del Borinage. Il mio intento è quello di ripercorrere la sua storia associandola a tutte le discipline. Ho deciso di fare questo, affinché i simboli del dolore e delle sofferenze di ieri diventino memoria e monumenti di oggi. Non ho mai incontrato mio nonno
ma ho raccolto le testimonianze di mia nonna, di mio padre e di mio zio. I loro racconti hanno reso viva la figura dell’emigrante italiano, che partiva con una piccola valigia (la cosiddetta valigia di cartone) e qualcosa da mangiare, verso una nuova “avventura”, verso una terra sconosciuta, della quale ignorava la lingua, le abitudini e la civiltà, lasciandosi alle spalle la propria amata terra. Proprio questi racconti hanno reso viva la figura del minatore italiano, tenace, consapevole dei rischi e delle proprie capacità, tanto da sentirsi insostituibile nel lavoro della “mina”; per i minatori di ogni nazionalità, la miniera rimane sempre la “mina”, nome che utilizzavano, italianizzando il francese. I minatori iniziavano la giornata solo con un sorso di caffè nello stomaco, al buio durante le mattine d’inverno, per rientrare ancora al buio della sera, senza vedere mai la luce del giorno; per la moglie e i figli, avevano solo un rapido saluto, che ogni volta avrebbe potuto essere l’ultimo. Alcuni non scendevano che una sola volta, altri lavoravano una o due settimane terrorizzati, ma molti di loro non rivedevano mai più la propria terra. [ … ]
IL RECLUTAMENTO IN MINIERA. In Belgio fino ai primi del ‘900, i lavoratori delle miniere erano legati alle loro fosse e trasmettevano con fierezza il loro mestiere ai propri figli; nel periodo tra le due guerre, però, la mentalità cambiò. Volendo risparmiare ai propri figli una vita di sofferenze e miseria, preferivano che i loro figli facessero qualsiasi cosa tranne che prendere la strada della fossa. La doppia instabilità del posto di lavoro, la natura stessa del lavoro di minatore e le condizioni in cui esso veniva esercitato, fecero nascere l’avversione per questo lavoro, cosicché i genitori si assicuravano che i loro figli studiassero e cercassero un impiego migliore. Per questo motivo, questo lavoro in Belgio stava scomparendo e gli imprenditori, invece, di rispondere alle rivendicazioni sindacali dei minatori migliorando le condizioni di lavoro e di remunerazione, preferirono reclutare operai stranieri per colmare il vuoto di manodopera. Il Belgio si rivolse così all’Italia che versava in condizioni critiche e, così, il 23 giugno 1946 fu stipulato il protocollo di intesa italo-belga, che prevedeva l’invio di 50000 lavoratori italiani, in cambio della fornitura annuale di un quantitativo di carbone, a prezzo preferenziale, compreso tra due o tre milioni di tonnellate. Per convincere le persone ad andare a lavorare nelle miniere in Belgio, l’Italia venne tappezzata di manifesti di colore rosa
che presentavano solo i vantaggi derivanti dal mestiere di minatore, come salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, ferie pagate ecc. In realtà, le condizioni di lavoro erano davvero dure. L’aspetto che, comunque, peserà di più ai nostri emigrati sarà, come diceva mia nonna, l’abbandono di ampi orizzonti soleggiati delle nostre terre e l’arrivo in una regione sempre cupa e nuvolosa. Il reclutamento dei lavoratori italiani avveniva mediante diverse fasi: inizialmente, veniva effettuato negli uffici di collocamento locali e, in seguito, in un ufficio che il patronato minerario installò nella stazione di Milano. Dopo un ultimo esame di ordine medico, i lavoratori venivano trasportati in Belgio e smistati nei vari bacini minerari. Il Governo italiano fece ben poco per richiamare l’attenzione degli emigranti sulla vera natura del lavoro e dato che il contratto di lavoro non prevedeva alcun periodo di adattamento, la prima discesa nei pozzi, fu un vero e proprio trauma. Molti si rifiutarono di riscendere il giorno seguente e furono incarcerati dalla polizia e poi espulsi; gli altri che restarono a lavorare nei pozzi, solo dopo cinque anni di lavoro obbligatorio, ricevevano il permesso di cercarsi un impiego in altri settori. Ad aggravare le loro condizioni di vita, succedeva che il Belgio non era inizialmente provvisto di abitazioni necessarie a tutti i lavoratori, che venivano messi in ex-campi di prigionia. Questi lavoratori, inizialmente, erano soli, ma poi fecero arrivare anche le loro famiglie. Le mogli dei minatori ebbero un ruolo determinante nella vita dei loro mariti, provati dal duro lavoro e dalle malattie che questo provocava. Esse affrontarono dignitosamente le difficoltà quotidiane. Queste famiglie non avevano niente, ma tra di loro nacque una vera solidarietà e i giorni festivi li dedicavano alle visite e alle feste con i vicini e durante questi incontri ognuno raccontava con nostalgia del proprio paese.
disegno delle miniere di Vincent Van Gogh
L’8 agosto 1956 a Marcinelle, nella zona del Bois du Cazier, si verificò una tragedia, dove persero la vita quasi 300 minatori, di cui la maggior parte immigrati, giunti in Belgio rimediare alla defezione della manodopera. I 274 uomini del turno della mattina si erano appena calati in profondità e l’estrazione era appena cominciata, quando verso le 8.10 su una piattaforma, a seguito di un malinteso, la gabbia si avviò troppo presto, mentre un vagone male inserito, oltrepassava uno degli scomparti. Tutto avvenne molto rapidamente. Il vagone filò via attraverso la superficie agganciando una trave, questa nella sua corsa danneggiò la tubazione dell’olio, deteriorò due cavi elettrici ad alta tensione e provocò la rottura di una tubazione dell’aria compressa. La formazione di elettricità tra i due cavi danneggiati provocò l’accensione dell’olio; l’incendio attivato dall’aria compressa, fu alimentato dalle numerose travi presenti nella galleria. Dopo qualche minuto, sette operai riuscirono a risalire annunciando la tragedia che si stava compiendo ed erano visibili le prime volute di fumo nero. Malgrado i numerosi e rischiosi tentativi e la mobilitazione generale, sopravvissero soltanto sei persone. Il 23 agosto, i primi soccorritori che finalmente erano riusciti a mettere piede nella miniera, trovarono soltanto cadaveri:
262 vittime, tra cui 136 Italiani. Marcinelle rappresentò, così, il culmine delle relazioni italo-belghe, perché l’Italia metterà fine all’emigrazione dei suoi figli verso le miniere belghe. In seguito, ad una conferenza convocata nel 1957 dall’Alta Autorità della Ceca, la sicurezza nelle miniere subirà una totale revisione. Anche la regione del Bois du Cazier non sarà più come prima, perché dopo una ripresa del lavoro nel 1957, la miniera cesserà definitivamente le sue attività nel 1967. La giornata dell’8 agosto, nel 2001, è stata proclamata “Giornata Nazionale dell’Emigrante italiano nel mondo. Questa foto, presente su molti siti internet, per ricordare i funerali di una delle tante vittime di Marcinelle, in realtà si riferisce ad un’altra tragedia, avvenuta pochi mesi prima, l’8 febbraio 1956, nella miniera di Rieu du Coeur, a Quaregnon, a causa di un’esplosione di grisou, in cui persero la vita 8 minatori, di cui 7 Italiani.
A questi funerali ha preso parte anche mio nonno, presente nella fotografia (il primo a sinistra). [ … ]
Tesina di Martina Russo Dedicata al Nonno Minatore