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ZIBALDONE SULLA PERLA DEL FORTORE Omaggio a San Bartolomeo in Galdo Parte settima

PILLOLE DI STORIA ANTICA – 7) Da Napoleone al regno d’Italia

Pochi anni dopo, ecco giungere velocemente il tempo dell’avventura napoleonica con la Repubblica Partenopea (1799) e con il Regno di Gioacchino Murat (re di Napoli dal primo agosto 1808 al 3 maggio 1815),  con i borghesi – per dirla in modo colloquiale – “che la fanno da padrone”.  L’imperatore dei francesi attraversò la storia europea come una meteora. Il suo governo durò poco più di vent’anni, un’esperienza che lasciò un segno indelebile, oltre che nella dimensione sociale, nell’amministrazione, nell’organizzazione militare, nei codici degli Stati. Nel settore agricolo proclamò caparbiamente la libera proprietà individuale contro il possesso feudale e la manomorta ecclesiastica, premessa necessaria per accrescere la produttività delle terre che ristagnava da tempo. Rientrati a Napoli, i Borbone vollero restaurare l’ordine e i principi vigenti prima della Rivoluzione Francese, mostrandosi intolleranti della libera espressione delle idee. Gli oppositori si organizzarono in società segrete. Anche nell’Italia meridionale prese piede la Carboneria, che aveva come obiettivi l’indipendenza dallo straniero e l’avvento di un regime costituzionale. Si diede inizio ai primi movimenti insurrezionali. Il 6 luglio 1820, in seguito ai moti carbonari, fu concessa dal re Ferdinando I la costituzione.

Ferdinando I delle Due Sicilie

Si formò così nel Napoletano un nuovo governo, ma poco dopo il sovrano invocò l’aiuto militare di Vienna per ripristinare nel regno la monarchia assoluta. Il 23 marzo 1821 gli Austriaci entrarono a Napoli. Con la caduta del governo costituzionale cominciarono le persecuzioni contro i liberali. Il 15 aprile 1821, capeggiato da Antonio De Nigris, il popolo di San Bartolomeo si ribellò al governo borbonico. La sommossa fu subito sedata con l’arresto di 24 rivoltosi (tranne il De Negris che riuscì a fuggire). Un anno dopo, il 17 agosto 1822, gli insorti furono processati a Foggia dalla corte marziale permanente in Capitanata – creata in virtù del Real Decreto del 9 aprile del 1821 – e per due di loro, Nicola Angelo Fiorilli e Francesco D’Antuono, l’esito fu il più drammatico: condannati alla pena di morte per il misfatto di lesa maestà.

La dinastia dei Borbone (iniziata nel 1734) aveva comunque imboccato la via del tramonto. Dopo la vittoriosa spedizione dei Mille di Garibaldi, nel 1861 arrivò l’Unità d’Italia. Il 17 gennaio 1861 viene istituita la provincia di Benevento che di fatto divenne la più giovane provincia della Stato italiano, e che inglobò anche San Bartolomeo in Galdo. Giova precisare che nell’elenco dei comuni facenti parte della nuova provincia (presentato da Carlo Torre al Consiglio di Luogotenenza il 24 novembre 1860), il nostro paese non era incluso. Questo avvenne soltanto dopo varie proteste e petizioni. Gli abitanti «imploravano che quel municipio venisse separato dalla provincia di Capitanata, cui apparteneva e fosse aggregato all’altra di Benevento» (Antonio Mellusi, L’origine della provincia di Benevento, Benevento 1911, pag. 113).

Palazzo della Provincia Benevento (Rocca dei Rettori)

La nascita del regno d’Italia aveva destato grandi speranze. Nessuno dubitava che le aspirazioni dei suoi artefici si sarebbero realizzate. Invece, nel giro di pochi anni, la realtà si incaricò di smentire anche i più inguaribili ottimisti; per l’area del Fortore, è «come un fuoco di paglia perché dà solo l’illusione della luce e del calore, ma lascia  un pugno di cenere». Dopo l’Unità, l’Italia si trovò a fare i conti con un Paese in cui le condizioni economiche e sociali del Nord e del Sud erano profondamente diverse. La crisi agricola che investiva il Meridione sottolineava ancor di più le differenze. Tasse e prezzi dei beni di prima necessità aumentarono sensibilmente. La miseria si diffuse, così come le malattie che essa provocava (malaria e pellagra, soprattutto) e la ribellione prese la forma del brigantaggio, per anni duramente combattuto dal governo sabaudo. Il banditismo “fortorino” finì il 29 novembre 1864 con la fucilazione di Giuseppe Schiavone, in quel di Trani. Mescolati ai “galantuomini”, nuova classe emergente, gli ex principi e baroni, trasformatisi in borghesi benestanti, continueranno a disporre dei terreni migliori a discapito dei poveri contadini, sempre sfruttati e costretti, dalla miseria, a emigrare. Fu in quegli anni, esattamente nel 1873, che per la prima volta si usò l’espressione “Questione meridionale”, usata dal deputato radicale lombardo Antonio Billia per definire la disastrosa situazione sociale ed economica del Mezzogiorno.

In questi ultimi anni, la controversa “Questione” (mai tramontata, del resto) è stata rispolverata da alcuni testi, come, per esempio, i numerosi libri di Pino Aprile, Se muore il Sud di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, i saggi di Marco Demarco, da Bassa Italia a Terrorismo.

Se il Sud è rimasto in queste condizioni di disagio e arretratezza, di chi è la colpa, dei meridionali o dei settentrionali? O è colpa della sua classe dirigente? Alle celebri parole di Norberto Bobbio («Una cosa è diventata ai miei occhi sempre più chiara, e sempre più difficilmente confutabile: la questione meridionale è prima di tutto una questione dei meridionali»), accostiamo la riflessione di Emanuele Felice, abruzzese (nativo di Vasto), docente di Storia all’Università Autonoma di Barcellona, tratta dal suo Perché il Sud è rimasto indietro (Il Mulino 2014): «Se i meridionali furono sfruttati da qualcuno, per la più grande parte della storia dell’Italia unita, ebbene lo furono dalle loro stesse classi dirigenti. Quelle del Gattopardo, per intenderci, disposte a cambiare tutto – ad accettare l’Unità, poi la modernizzazione, finanche la democrazia di massa – purché nulla cambi. E specie negli ultimi decenni gli sfruttati furono essi stessi complici, volenti o piuttosto nolenti, attraverso il voto clientelare. Stando così le cose, scaricare tutte le colpe sul Nord a me pare non solo un’indebita autoassoluzione, ma soprattutto un inganno ideologico: l’ennesimo affinché nulla cambi dentro la società meridionale». Recensendo il saggio di Felice sulle pagine de Il Giornale del 17 gennaio 2014, Giancristiano Desiderio notava: «Lo storico abruzzese punta il dito sulle classi dirigenti meridionali che dall’Ottocento ai nostri giorni – quindi dal barone, al galantuomo, ai possidenti, ai mediatori politici di ieri oggi e domani – hanno lavorato per conservare le cose come stanno sfruttando, loro sì, la propria posizione di dominio sulla società meridionale. Anzi le classi dirigenti meridionali sono bravissime nel creare una “narrazione” che le assolve e individua in altro – il Nord, la geografia, l’economia – il ritardo del Sud».

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