L’unica sicurezza che avevano i contadini di San Bartolomeo prima dell’unità d’Italia era la sicurezza alimentare. Non che vi fossero pranzi e pietanze luculliane, ma la terra garantiva quei prodotti che oggi definiremmo a km 0 che sfamavano il povero quanto il ricco. La conformazione delle colline garantiva la rigogliosità dei vigneti, la dovizia dei contadini aveva permesso che San Bartolomeo diventasse esportatore di ortaggi, ne producesse oltre il suo fabbisogno. Il Falcone
ci informava che le terre di SBiG producevano abbondanti quantita di: rape, raperonzoli, ravanelli, cavoli cappucci, cavoli torzelle, cavoli fiori e verzotte, endivie, finocchi, sedani, biete, barbabietole, carciofi, peperoni, pomodori e ogni tipo di spezie. I fichi crescevano in abbondanza, l’olivo prendeva sempre più piede e il surplus di grano permetteva di scambiarlo con il sale. Con tali prodotti si formò quella che poeticamente nomineremmo “cucina povera”. La cucina del popolo, dei contadini, delle classi meno abbienti. Mescolati sapientemente tali ingredienti danno luogo ad una cucina prettamente vegetale,ma molto diversa da quella descritta dalla giornalista inglese Jesse White Mario nel suo propagandistico: “La miseria in Napoli”. Il piatto d’obbligo il giorno del sacrificio consisteva nel friggere il fegato e altre interiora insieme ai peperoni sotto aceto (i p’paur – se non fosse morta, bisognava fargliele assaggiare alla Mario), si raccoglieva il sangue in recipienti per farne del delizioso sanguinaccio e magari nelle giornate fredde di febbraio cucinare una buonissima “’sagn cu sangunat”. E del maiale non si buttava via niente, nemmeno le budella (a paratur) che dopo esser state lavate con cura, si lasciavano essiccare e affumicare.
fotografia: Salvatore Picciuto