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sabato, 14 Dicembre 2024

Murales collettivi dal Cile all’Italia. Intervista a Eduardo “Mono” Carrasco

Abbiamo la possibilità di intervistare Eduardo “Mono” Carrasco, famoso muralista cileno esule in Italia dal golpe militare. Vive tuttora in un paesino nella provincia di Alessandria e pur rallentato dal Covid è sempre in giro in Italia o all’estero per realizzare nuovi murales, restaurarne di vecchi e fare esposizioni. Per anni ha lavorato con il gruppo degli Inti Illimani, unendo alla musica la pittura collettiva.

Durante tutta l’intervista rimbalziamo tra quei primi anni ’70 e l’attualità di un Paese tornato alla ribalta dopo la vittoria alle elezioni presidenziali del candidato della sinistra Gabriel Boric. I discorsi si mescolano, le emozioni si rispecchiano tra passato e presente, coscienti che la storia non si ripete, ma neppure si cancella. Eduardo è tra l’altro uno dei protagonisti del film “Santiago, Italia” di Nanni Moretti.

Intanto da dove viene il soprannome “Mono” (che in spagnolo vuol dire scimmia…)?

È vero, di solito non è un complimento, ma io ne vado orgoglioso. Successe nel 1969: io avevo 15 anni, durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam nel centro di Santiago qualcuno pensò bene di issare una bandiera vietnamita in cima ad un’antenna della televisione. Io mi arrampicai per appenderla e da lì nacque quel soprannome.

Studiavi in una scuola pubblica o privata?

Io ho sempre studiato nelle scuole pubbliche, ma dirò di più: fino al golpe del 1973 la scuola pubblica cilena era eccellente.

Seguendo le manifestazioni degli studenti cileni degli ultimi anni, vuoi dire che prima di Allende l’istruzione pubblica era migliore rispetto ad adesso?

Sicuramente. Il Cile è un Paese lunghissimo, pieno di località sperdute: da sempre, ovunque, tu puoi vedere una casetta, una capanna, con una bandiera cilena: quella è una scuola. Tutto risale ad un presidente che il Cile ebbe dal 1938, il cui motto era governare ed educare. Fu la giunta militare dopo il golpe del ’73 a distruggere tutto sistematicamente, sposando la teoria del libero mercato di Milton Friedman.

C’è una cosa che non capisco: guardando le immagini delle piazze ai tempi di Allende e quelle di oggi, sembra che ci sia un seguito enorme, schiacciante. Invece in entrambi i casi c’è quasi altrettanta gente che vota a destra

È da molto tempo che c’è una grande disaffezione al voto in Cile; in diverse occasioni ha votato un 50% degli aventi diritto. Ma in alcune grandi occasioni, come quando c’è stata la possibilità di scegliere i partecipanti alla nuova Costituente, ha votato l’80%.

Da che famiglia provieni?

Mio padre era un operaio, un chimico grafico; sono cresciuto in mezzo alle formule e ai colori e forse la mia passione è venuta fuori anche da lì. Tutto cominciò con quella manifestazione da Valparaíso a Santiago nel 1969: con altri 6 ragazzi seguimmo tutta la marcia con secchi e pennelli scrivendo ovunque “No alla guerra in Vietnam” e “Yankee go home”. Non mi considero un artista, nel senso classico del termine, le mie opere hanno sempre avuto una forte caratterizzazione sociale. Ci tengo poi alla partecipazione della gente, che siano adulti, giovani, bimbi, dall’ideazione alla realizzazione.

Fammi un esempio per capire come condividi il momento dell’ideazione

Uno dei prossimi murales sarà eseguito su dei pannelli in un liceo di Casale Monferrato e riguarderà Dante. Innanzitutto, ci tengo a che tutti gli studenti partecipino in forma volontaria, senza alcun obbligo. Li ho incontrati e ho dato alcune indicazioni su come si realizza un murales, la “lettura” che avviene da sinistra a destra; poi ci siamo “sguinzagliati” alla ricerca di immagini, di simbologie che ci piacciono o ci interessano. Quando tutti porteranno le loro idee cercheremo di metterle insieme, sarà come fare un puzzle. Anche coi bimbi della materna il procedimento è simile: i bambini fanno dei disegni su indicazioni delle maestre con le quali io sono in contatto. Poi tutti partecipano a realizzare il murales, fosse anche solo con una pennellata. Infine voglio sempre che ci sia un giorno finale dove lo si riguarda e lo si aggiusta con calma.

Torniamo indietro. Tu finisti in Italia perché nell’agosto del 1974 scavalcasti il muro e ti rifugiasti nell’ambasciata italiana di Santiago. Perché la scegliesti?

C’era poco da scegliere: io da tempo dormivo qua e là, sono stato in 12 o 13 case diverse, in clandestinità. La rete dei militari si stava stringendo, cominciavamo a mettere in pericolo chi ci ospitava e a volte erano famiglie normalissime e di tutti i ceti, non solo militanti. Bisognava andare via e in quel momento l’ambasciata italiana era l’unica che accettava profughi.

Cosa succedeva a voi che scappavate ed arrivavate in un nuovo Paese? Ognuno la viveva a modo suo o c’erano delle costanti? Prevalevano la rabbia, l’angoscia, il senso di colpa o di liberazione, l’ansia, la disperazione?

C’era un po’ tutto quello che dici, ma credo che le differenze fossero soprattutto in base all’età; in noi giovani era maggiore l’incoscienza, il mio vissuto del Cile era ben diverso da quello di un uomo di 40 anni magari con moglie e figli. Per me il primo obiettivo fu quello di di dare una mano in tutti i modi a coloro che erano rimasti lì, e fare tutto il possibile perché cadesse quella dittatura; mi buttai in questo e andai avanti per anni…

Dopo un breve periodo a Roma passai a Bologna, dove mi avevano chiamato a coordinare tutta la solidarietà giovanile per il Cile. Correvo da tutte le parti – incontri, dibattiti, murales – e conoscevo davvero tantissime persone. All’inizio ho fatto un enorme fatica con l’italiano, credo di essere negato per le lingue; c’era sempre una ragazza che faceva le traduzioni, una volta non venne e me la dovetti cavare in qualche modo. La solidarietà era comunque tanta e diffusa. Una volta in un paesino la mattina dopo un incontro una signora anziana in bicicletta, di quelle vestite tutte di nero, mi disse che le era piaciuto il mio intervento della sera prima… La radio di Mosca aveva dato vita ad una trasmissione gestita da cileni dal titolo “Escucha Chile” (Ascolta Cile), che i cileni seguivano di nascosto. Un’amica che era in prigione ad Arica, nel nord del Cile, sentì dire da una guardia: “Ti sei salvata, il tuo nome è comparso alla radio!” Questo per dire quanto contava la solidarietà.

Per un ventenne di oggi dev’essere difficile capire come fossero allora le comunicazioni con il vostro Paese così lontano

Semplicemente non c’erano comunicazioni, o erano complicatissime: dovevi telefonare a Roma e chiedere la linea; non sempre ci si riusciva, magari cadeva e poi era carissima. Le lettere non sempre arrivavano, o si perdevano o le facevano perdere. E comunque bisognava “dire senza dire”.

Vorrei ragionare con te sul tema della paura: quanta paura c’era nel fare una scritta o un murales illegale, e quanta paura facevano i vostri murales, le vostre scritte

La paura è un sentimento lecito, l’importante è superarla e questo avveniva grazie alla forza degli ideali. Pur essendo ragazzi e quindi spavaldi, la paura c’era. Quanta paura facevamo noi? Tanta. Durante la campagna elettorale in cui poi vinse Allende e anche dopo, la destra aveva scatenato una campagna brutale contro di noi: secondo loro questi gruppi di muralisti erano delinquenti, violenti, armati. Più di una volta ci siamo dovuti difendere, anche in tribunale, da montature inesistenti. La nostra brigata “Ramona Parra”, fatta da giovani che scrivevano o pitturavano i muri, disturbava tantissimo; durante il governo di Allende, se succedeva un fatto a Santiago alle sei di sera, alle sette c’erano già delle scritte che lo denunciavano su qualche muro della città. Ci trovavamo e partivamo con pitture e pennelli, mica c’erano i telefonini.

Ricordo che la giunta militare fece stampare un libro di fotografie in cui c’era una sorta di parallelo tra “il Cile di ieri e di oggi”: nella pagina di sinistra IL MALE, in quella a fianco, a destra, IL BENE. In una pagina (naturalmente a sinistra) comparivo io mentre dipingevo qualcosa, in quella di destra una classe di studenti benestanti, ordinati, pettinati, con camicia e cravatta.

Ogni gruppo di muralisti era formato da 12-15 ragazzi, con una precisa divisione dei compiti: il primo cominciava a tracciare le lettere della frase, poi alcuni dipingevano il fondo, altri le lettere, man mano un paio di noi col nero ripassava correggendo le magagne e rendendo più bello il murales. Eravamo velocissimi. Considera che sono stato arrestato una quindicina di volte, ogni volta mi facevo una o due notti in guardina, poi doveva venire un maggiorenne a prendermi. Io ero figlio unico e ho avuto la fortuna di avere i miei genitori sempre dalla mia parte. Mi sostenevano ed erano orgogliosi di me; certo è che non gli dicevo tutto (soprattutto quando c’erano degli scontri coi fascisti) e mia madre ne sapeva comunque meno di mio padre. Durante il governo Allende non eravamo più fuorilegge; era proibito scrivere su alcuni muri, ma noi lo facevamo lo stesso.

Durante la dittatura hanno ricoperto tutti i vostri murales e le vostre scritte. Hai mai assistito al lavoro di uno di questi imbianchini?

No.

Sai che Bertolt Brecht chiama Hitler: “l’imbianchino”?

Lo trovo bellissimo, con tutto il rispetto per gli imbianchini.

In internet si vede la realizzazione di un bellissimo murales in un paesino campano, San Bartolomeo in Galdo, dove era avvenuta nel 1957 la marcia della fame, poi repressa. Tu e gli Inti Illimani sembrate scesi da un’astronave, mentre la gente vi osserva incuriosita

Si, fu un’idea del regista Ugo Gregoretti che ci portò lì, nel Sannio. All’inizio in effetti fu un po’ strano, ma nel giro di poco tempo ci integrammo con la popolazione. Poco tempo fa sono tornato a ripristinare il murales. Qui si può vedere un’intervista a me e a Ugo Gregoretti.

Nei vostri murales molte volte compariva un pugno

Si, era un simbolo di forza, di lotta, di vittoria. Oggi non lo rifaremmo, ma a quel tempo era proprio frequente. Ricordo che per una festa dell’Unità disegnai uno di quegli adesivi che ti attaccavano in cambio di una sottoscrizione: era un pugno con i colori della bandiera cilena, non so quante migliaia ne stamparono.

In quegli anni in Cile vivesti un periodo di grande accelerazione. Quello attuale ti sembra un momento analogo?

Per certi aspetti sì, ma il Cile di oggi è ben diverso e i giovani usano strumenti differenti dai nostri. Sicuramente si sono mantenuti degli ideali, riprendendoli anche da allora.

Si può dire che l’essere umano in momenti di altissima tensione, in condizioni estreme (penso a guerre e rivoluzioni) dia delle risposte straordinarie?

Da una parte sì, ma dal golpe in Cile sono nate esperienze e persone grandiose, così come il peggio del peggio. Ti faccio un esempio: c’era un ragazzo col quale fino al momento del golpe giocavo sempre a calcio. Seppi poi che stava con i militari e andava dicendo in giro che se mi avesse trovato mi avrebbe ucciso.

Hai mai pensato di tornare a vivere in Cile?

In un primo momento si, tanto che appena ci fu il referendum dell’88 tornai in Cile accompagnando una troupe della RAI. Fu un viaggio difficilissimo, non riconoscevo più il Paese che avevo lasciato. Mi sono perso in una città che prima conoscevo come le mie tasche. Mi sono sentito uno straniero. Non potevo più tornare.

Dipingere un muro trasmette un senso di libertà?

Credo che dipingere in generale possa trasmetterlo.

Ma nel dipingere un muro c’è anche una componente trasgressiva

Certamente, per questo ai giovani piace molto. C’è anche la gioia di poter dire: “L’ho fatto io!” Ricordo che tanti anni fa dipingemmo un autobus a La Spezia, che poi sarebbe stato mandato in Cile. Prima facemmo coi ragazzi e le ragazze un giro della città sull’autobus colorato. Molti di loro, soprattutto le ragazze, erano emozionati fino alle lacrime. Mi dissero che non si sarebbero mai dimenticati di quell’esperienza.

Una volta arrivato in Italia hai mai temuto che anche qui potesse avvenire un golpe come in Cile?

No, davvero. Voi non sapete quello che avete, una Repubblica nata dalla Resistenza. Nei momenti difficili il popolo italiano sa reagire come si deve.

Ci salutiamo e ci promettiamo di conoscerci di persona e magari realizzare un murales a Milano. Il giorno precedente all’intervista avevo visto molti video su YouTube che lo riguardano. In alcuni è giovanissimo, in tuta da lavoro, con i capelli lunghi e si aggira davanti a un murales che stanno ultimando. Rivedendolo ora sembra cambiato poco: ha la stessa vivacità, gli stessi occhi brillanti, come un folletto che si muove veloce, facendo attenzione a non rovesciare i tanti barattoli di vernice.

fonte: pressenza.com

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