âLâinsediamento di San Bartolomeo nel Medioevoâ continua il viaggio con le immunità, franchigie e libertà concesse nel 1331.
  L’otto maggio 1331, con un atto rogato dal notaio Raone di Foiano, l’abate  fra Nicola da Ferrazzano e il procuratore fra Nicola da Cerce concessero  agli abitanti del casale di San Bartolomeo in Galdo, da poco sorto,  âimmunitates, franchitias et libertatesâ, a conferma della stretta  dipendenza che esisteva tra il nuovo casale e il monastero del Gualdo.  L’atto consta di tre parti: la prima parte è stata scritta dal notaio Canterello di Foiano,  che nel 1337 autenticò lo strumento dell’8 maggio 1331. La seconda parte è  costituita dall’atto scritto dal notaio Raone l’8 maggio 1331. La terza parte  riporta lo  strumento di procura scritto da Raone il 29 aprile precedente.  Innanzitutto  “l’abate e il convento si impegnavano ad esentare i cittadini  per dieci anni (dal 1331 al 1341) dal pagamento di qualsiasi colletta o  sovvenzione spettante alla Corte. Se in questi dieci anni fosse capitato di  dover pagare qualche tributo, lo stesso abate e il convento avrebbero  corrisposto, in luogo dei vassalli, la colletta  o la sovvenzione dovuta.  Tutti i cittadini potevano a loro arbitrio erbare, acquare e legnare per i  territori di Ripa de Alterno, Castelmagno, S. Angelo in Vico e Foiano, ma  solo ai padri di famiglia era concesso di portare liberamente gli animali al  pascolo altrui, in numero non superiore a dieci. Ciascun padre di famiglia  poteva ottenere per la sua abitazione il terreno sufficiente per un vigneto,  un orto o un pagliaio. Era concesso a tutti di possedere, vendere, donare,  permutare, alienare o lasciare per testamento i propri beni immobili, fatti  salvi ovviamente i beni del monastero. Per cui ogni bene donato a chiese o  ad ecclesiastici doveva, nel volgere di un anno, essere rivenduto dai  destinatari a un vassallo del casale, altrimenti il bene donato sarebbe  ritornato di proprietà del monastero” : era questa una clausola restrittiva,  ma in tal modo la proprietà rimaneva sempre a disposizione del vassallo.  “Era consentito a ciascun vassallo di andar via liberamente dal casale; ciascun  vassallo aveva la possibilità di costruire liberamente e possedere centimoli  (mulini) anche  per sfarinare il grano altrui. Ovviamente, se era in funzione, nella zona, il mulino del  monastero, il possessore del centimolo poteva sfarinare solo il grano necessario alla  propria famiglia e al mulino del monastero si sarebbe dovuto corrispondere un  sedicesimo del grano sfarinato. Era lecito ad ogni vassallo costruire liberamente il suo  forno e possederlo per sempre libero e franco da ogni servitù”: altrove, invece,  bisognava recarsi necessariamente al forno del feudatario.  “I vassalli che volevano lavorar campi o metter su aziende agricole potevano  coltivare i terreni loro concessi dall’abate con la prestazione di un tomolo su undici  come decima. Chiunque di essi avesse fatto una coltura arborea o avesse piantato una  vigna nelle terre soggette a terratico, avrebbe conservato la nuova coltura per sempre  libera e franca da ogni prestazione. 
 Il monastero, per esonerare da un gravame i  cittadini, avrebbe provveduto alla scelta a tempo opportuno di un baglivo o di più  baglivi. E per la sovvenzione dovuta a questo baglivo si faceva obbligo a ogni padre  di famiglia di corrispondere alla Corte del monastero la quarta parte di un tomolo di  grano nella festività di S. Maria di settembre (cioè l’8 settembre).  In forma di omaggio e di riverenza, ogni vassallo era tenuto a portare personalmente  alla corte del monastero un bucellato di pane nelle festività di Natale e di Pasqua; chi  fosse venuto meno al suo obbligo, avrebbe dovuto portarne nove invece di uno. Dal  canto suo la Corte era tenuta a dare in contraccambio un ciato di vino.  Ogni anno gli abitanti del casale dovevano eleggere il âcamerarioâ e il giudice del  casale; e costoro, dopo la conferma della Corte, avrebbero dovuto assolvere per un  anno al loro compito con diligenza e fedeltà. Né all’abate, né ai suoi successori o ai  suoi ufficiali era lecito imporre gabelle agli uomini del casale o imporre per obbligo  ai vassalli di andare per conto loro fuori dal castro a portare lettere con valore di  mandato”: è questa una franchigia a cui gli abitanti di San Bartolomeo tenevano  moltissimo. Infatti, nel 1372 essi si ribellarono apertamente contro il monastero a  motivo  di questa concessione.  “E  nessun vassallo era obbligato a prestare panni per letti in favore dell’abate o di  suoi familiari, a meno che non volesse farlo di sua spontanea iniziativa. Era concesso  a tutti di aprire liberamente cianche, di vendere la carne degli animali uccisi  senza pagare alcun diritto alla Corte e di aprire liberamente taverne”: altrove,  invece, la taverna era un corpo feudale di proprietà del feudatario.  Queste âimmunitates, franchitias et libertatesâ  erano valide per tutti gli abitanti  del nuovo casale di San Bartolomeo, che lì si erano trasferiti per abitarvi come fedeli  vassalli del monastero, e anche per tutti coloro che in seguito vi si sarebbero trasferiti  ad abitare con i loro beni.  
            
		