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venerdì, 22 Novembre 2024

Censore, educatore e benefattore

Un’altra pillola del viaggio nella storia dell’Istituto del Calvario e di mons.Pepe, questa prima parte concerne l’epoca storica e la vicenda umana di mons. G. Pepe

L’esperienza di Fano si rivelò la più felice di G. Pepe, come aveva sognato nella cerimonia inaugurale (settembre 1928), di fronte al plauso schietto, generoso, entusiastico dei giovani seminaristi. Nel salutare i professori e gli alunni del Seminario Marchigiano afferma:
“non chiedo il vostro plauso e la vostra acclamazione, bensì l’intima vostra preghiera rivolta al Signore, affinché mi aiuti con la sua grazia a compiere l’altissimo dovere della vostra formazione religiosa, morale, intellettuale. Niente io sono e a nulla io valgo, ma perciò appunto vorrei gridare con S Paolo: – Omnia possum in Eo qui me confortai -. Noi dobbiamo diventare tutti – superiori, professori, alunni – docili strumenti nelle mani del Supremo Educatore Gesù Cristo, per cooperare insieme e strettamente uniti con Lui a preparare nuovi ministri della Chiesa, nuovi apostoli alla società, che ha sete incessante di verità, di giustizia, di bene. A voi, carissimi giovani, vorrei poter applicare l’espressione paolina della lettera ai Galati: – Filioli mei, quos iterum parturio, donec formetur Christus in vobis -, giacché è proprio questa mistica formazione e riproduzione dello spirito di Gesù Cristo nella vostra coscienza lo scopo supremo, cui vuoi tendere con l’aiuto divino, con tutta la mia umile attività“.
Questa la pedagogia di Giovanni Pepe: un processo d’ identificazione con il Divino Maestro nel suo spirito di sapienza, amore, sacrificio: un crescere come Lui in sapienza e in grazia dinanzi a Dio e agli uomini, un divenire speranza della Chiesa e della società. La stessa disposizione pedagogica e didattica egli portò nell’insegnamento della Teologia dogmatica nel Corso Minore della Pontificia Università Lateranense, dove fu professore dal 1932. Alla fine del 1931 è chiamato a Roma presso la Suprema Sacra Congregazione del S. Uffìzio come ufficiale, dove egli svolgeva la funzione di Sostituto per la censura dei libri. Ma l’attività censoria non indurì il suo carattere ne attuti il suo spirito di carità, che continuò a sostenere le sue iniziative nella terra natale, dove, oltre all’impegno nella costruzione dell’opera di salvaguardia della vecchiaia diseredata e derelitta, accentuò il suo interesse premuroso e la sua sollecitudine operosa per le Suore di Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, vendendo tutto quello che gli era stato donato dal nonno materno, dalla madre, e persino la dote e parte del corredo della sorella Carmela, insieme al guadagno ricavato dall’insegnamento e dai vari uffici ecclesistici. Di questo suo radicamento caritativo nella terra natale danno testimonianza commossa le stesse protagoniste locali della sua opera di beneficenza:
“Amò di amore tutto particolare l’Istituto delle Suore di Carità. Affascinato dalla grandezza morale della nostra Santa Fondatrice, si chinò ammirato e comprensivo sulle sue figlie (…). Le chiamò una prima volta come maestre d’asilo, del laboratorio e delle scuole elementari nella bella casa acquistata al centro del paese (nel Palazzo Martini, antica sede del Governo Gesuitico); poi nell’ideata Casa di riposo e di cura per i vecchi lavoratori derelitti e infermi”.
Espletava con zelo la sua attività di censore dei libri, svolgendo compiti delicatissimi, tra i quali l’ispezione al Convento di Padre Pio in S. Giovanni Rotondo. Nel frattempo si tormentava per trovare i finanziamenti necessari a mandare avanti la costruzione dell’opera concepita per i vecchi bisognosi. E, benché i contributi provenienti dagli emigrati d’ America fossero rilevanti, non erano mai sufficienti a rispondere alle esigenze di una Istituzione progettata non solo per il ricovero ma anche per la cura degli anziani senza supporti domestici. Lo faceva soffrire il senso della sproporzione tra la vastità della concezione e la povertà o inadeguatezza dei mezzi. Una volta costruito l’ambiente s’imponeva, quasi insolubile, il problema dell’attrezzatura. Nell’ impossibilità di portare a termine il suo disegno iniziale, quasi presago della fine per l’incalzare dell’età, cambiò la destinazione d’uso dell’opera e:
“volle che quella seconda casa fosse un vivaio di giovani anime, che si preparano a rispondere nello studio, nella preghiera e nel raccoglimento alla vocazione religiosa per continuare a diffondere in mezzo alla gioventù, ai miseri, ai derelitti, il soave profumo di quella carità di Cristo, che fu il palpito, l’aspirazione e il sorriso di tutta la sua vita”.
Merita un cenno particolare un altro aspetto della sua religiosità: la promozione o animazione vocazionale dei soggetti femminili, che grazie al suo sostegno finanziario e spirituale presero numerose, il velo monacale, tra le Immacolatine, le Adoratnci del Sangue di Cristo, le Maestre Pie Filippini, le Francescane Alcantarine e soprattutto le Suore della Carità. Una sua nipote suor Filomena D’Arrissi, vissuta con lui a Roma, dal 1946 al 1949, prima di diventare religiosa ricorda, oltre che la metodicità, la scrupolosità, la precisione, la recita quotidiana del rosario, la sua esagerata tendenza al risparmio, alla parsimonia, alla frugalità alimentare, l’impegno razionale del suo tempo: sveglia alle cinque del mattino, messa e insegnamento a S. Giovanni Laterano; lavoro di ufficio con disbrigo di pratiche e rientro alla sera tra le nove e le dieci. Una testimonianza, questa, confermata in coro da quelli che lo hanno conosciuto: risparmiava molto anche sui pasti, mangiava pancotto, pasti umili e persino avariati. E tutto in funzione delle sue opere di carità. Nell’ultimo anno della sua vita (1955) in alcune lettere scritte alle nipoti suore più care non ha altri pensieri che le sue “fìglie” spirituali. Ha 74 anni ed è trattenuto a Roma ancora in servizio; ma il suo cuore è a S. Bartolomeo:
“lì attendono ansiose le quaranta nuove apostoline, aspiranti Suore della Carità, ben installate al Calvario con materna cura della nuova Madre Provinciale di Napoli. Le opere preesistenti prosperano e si sviluppano e invocano l’aiuto divino e l’assistenza del Sacerdote che le ha fondate con molti stenti fra incomprensioni e ostacoli inenarrabili”.
All’altra nipote Suor Sofia Pepe comunica:
“Al Palazzo Martini abbiamo comprato due altri stanzoni adiacenti al dormitorio e alle aule scolastiche della Suore che le desideravano da tempo (…) Al Calvario (cioè nella Casa di riposo incompiuta) le Apostoline stanno benissimo e contente (…). Va lì a celebrare ogni giorno un Padre francescano, quindi non reclamano la mia presenza come Cappellano”
L’ultima lettera a Suor Sofìa porta la data del 30 giugno 1955. In essa le comunica di restare a Roma sino all’8 agosto per poi tornare al paese, dove conta di trattenersi sino al 19 settembre,
“sopportando in pazienza tutto e continuando a lavorare per quelle ottime apostoline e per le Suore che le Educano”.
Ma al 19 settembre non arriva. Pochi giorni dopo l’arrivo a S. Bartolomeo, il 30 agosto 1955
“il suo cuore magnanimo cessò di battere in mezzo alle aiuole di anime alimentate dalla sua carità a suggello di una vita vissuta per gli altri”.
Con lui scompare un sacerdote di stampo antico, fra gente ancora legata ai valori tradizionali.

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