Briganti e banditi hanno da sempre affascinato poeti e prosatori che dando esalazione alla fantasia hanno creato personaggi leggendari, solitamente non privi di una carica di simpatia.
Miseria, condizioni pessime di vita e arretratezza diedero vita a creature raccapriccianti del crimine. Privi di ideali politici e senza alcuna prospettiva di un ordine sociale, vagabondeggiavano per le campagne, tendendo agguati e rendendo insicure le scarse viottole di fango che allacciavano i paeselli arroccati su questi monti.
Contribuirono ad alimentare il brigantaggio le tasse eccessivamente gravose, la burocrazia piemontese, il servizio militare obbligatorio, il passaggio delle terre del demanio e degli ordini religiosi soppressi nelle mani dei signorotti, la perdita di usi civici quali il legnatico e lâerbatico, indispensabili alla gente per poter sopravvivere.
Migliaia di contadini si diedero alla macchia per combattere il nuovo sistema che si stava instaurando. Ad essi si unirono sbandati del disciolto esercito borbonico, evasi dal carcere, renitenti alla leva. Le bande erano piccole combriccole a cavallo, sulla cui groppa tenevano una bisaccia a doppia tasca, in cui vi erano viveri, munizioni, doppietta da caccia e vestiario.
Le bande comunicavano con colonne di fumo durante il giorno e con falò e lampade nella notte. I messaggi venivano trasmessi con speciali accorgimenti come stracci esposti alle finestre, intacchi sulle piante, rami spezzati, pietre accatastate, imitazioni di richiami di uccelli. La gente più povera non era ostile anzi proteggeva i briganti che erano visti come vendicatori di ingiustizie secolari. Per reprimere il brigantaggio fu approvata la legge Pica e furono inviati nel meridione ben 120.000 soldati e si commisero abusi come la fucilazione di chi era trovato in possesso di armi, lâarresto domiciliare degli individui sospetti ed altre tantissimi misure punitive. I briganti risposero con non meno ferocia: i soldati furono legati agli alberi ed arsi vivi, altri furono crocifissi o mutilati. Tra il 1861 e il 1865 furono uccisi e fucilati 5.212 briganti, arrestati 5044.
I briganti più celebri che caratterizzarono la scena di San Bartolomeo in Galdo nel primo decennio del 1800 furono i fratelli Vardarelli di Celenza così designati perché artigiani di bardature e varde per giumente e muli. I Vardarelli misero insieme una banda di 200 masnadieri che incuteva trepidazione nell’alta valle del Fortore. I briganti furono debellati dai Borbone alla fine del 1820.
Agli inizi del 1860 a San Bartolomeo vi erano due bande di briganti che compivano malefatte in paese, capeggiate da Beniamino Innestato “Sargentiello” e dal âMonachielloâ. Altri briganti che si presentavano con continue incursioni nel paese e nelle campagne di San Bartolomeo erano le bande del baselicese Antonio Secola, di Saverio Basile âPelorossoâ da Colle Sannita, di Giuseppe Schiavone di S. Antagata di Puglia e di Giambattista Varanelli di Celenza, tutti capi masnadieri che riconoscevano lâautorità del colonnello Michele Caruso di Torremaggiore e del quale erano luogotenenti. Le prime voci sui banditi cominciarono a diffondersi nel maggio del 1861. Si cercò quindi di difendere i paesi che si ergevano desolati su queste colline con delle guardie nazionali.
Covo dei briganti prese ad essere il bosco di Mazzocca che si estendeva tra Baselice, Castelvetere, Colle e S. Marco dei Cavoti, la loro tana divenne il Toppo delle Felci cuore di questo impenetrabile bosco. Da questo toppo i briganti potevano con facilità piombare ora sull’uno ora sull’altro paese. Michele Caruso il famosissimo brigante che terrorizzò San Bartolomeo e i paesi contigui nacque a Torremaggiore nel 1837. L’abitazione in cui nacque e visse da bambino era una vecchia catapecchia mezza rovinata, dalle mura nere, umide e screpolate, una di quelle case che contemporaneamente servivano da stalla, da cucina e da dormitorio. Una vera abitazione della miseria, fra il sudiciume e i cattivi odori, illuminata dalla fiamma fuligginosa di una candela ad olio, dove non possiamo minimamente immaginare come quella gente vi potesse vivere, amare e soffrire. Michele fin dall’infanzia si dimostrò capriccioso e poco rispettoso con la mamma e il papà . Fu brutale con gli amici poiché, per un nonnulla, rifilava delle ceffate, agli usignoli del bosco con le dita, serrava la gola. Divenuto precocemente giovane si diede a fare il boscaiolo, il sensale di grano, il garzone del fornaio e il vaccaro. Quando gli riusciva, rubava ai padroni e quando questi se ne avvedevano, allora se ne scagionava con svergognate menzogne. Era cresciuto in una rozza famiglia di boscaioli, la mancata educazione aveva fatto in lui comparire l’atavismo. A differenza di tanti altri capi briganti, eseguiva le più importanti condanne capitali e per il solo desiderio di vedere soffrire e morire fucilava e bruciava, per far risaltare la propria personalità sgozzava i viandanti e decapitava i possidenti, per provare la polvere sparava i contadini, che avevano la sventura d’ imbattersi sulle sue orme. Ben presto fu rinchiuso nelle carceri di S. Severo, ma evase e per non ricadere nelle grinfie della Giustizia, si dette alla macchia.
Caruso scelse per le proprie scorribande le province di Campobasso, Capitanata e Benevento, si insediò nei monti rivestiti di folte boscaglie che offrivano ai masnadieri asilo e latitanza. La sua casa divenne il bosco arruffato e impenetrabile tutto forre, buche e dirupi. Nella desolata solitudine della macchia circondata dai melanconici e deserti possedimenti, ove non si odeva che la voce delle creature del bosco, il brigante sorrideva della platonica giustizia, che si accontentava di accumulare mandati di cattura e di promettere taglie. Tra il 1861 e il 1863 compì razzie di bestiame, incendi di masserie e l’assassinio di tantissima gente.
Venne catturato a Molinara in un pagliaio in cui era con l’amante. Da Molinara, per ordine del Prefetto, venne tradotto a Benevento, e sottoposto al tribunale militare. Il generale Pallavicini emise contro di lui sentenza di morte. Caruso, con le mani legate dietro la schiena, fu condotto fuori porta Calore, dove lo aspettava una folla enorme accorsa da tutti i paesi del Beneventano. Caruso, camminava con passo lesto e con aspetto cupo e minaccioso. Giunto a pochi passi dal drappello, che lo doveva passare per le armi, alzò la testa e fissò i fucili, che lo dovevano finire sfidando così la morte; poi gettò uno sguardo di disprezzo alla folla che, a squarciagola, gridava: “A morte! A morte!”. Il masnadiere voleva contro di essa imprecare, ma non ebbe il tempo, poiché il comando fu dato, l’ufficiale del drappello sguainò ed alzò la sciabola… poi nell’abbassarla la scarica rintronò terribile. Michele Caruso, colpito da più proiettili, mandò un grido simile ad un conato di tosse, poi barcollò ed infine cadde sul fianco destro. Erano le ore 22 del 12 dicembre, finiva l’incubo del brigantaggio. Il cadavere, venne esposto al pubblico per 24 ore.
Eccovi alcuni avvenimenti
27 febbraio 1863 – Verso la mezzanotte, innanzi alla masseria di don Luca Colatruglio si fermarono dei briganti a cavallo. Caruso, che comandava la comitiva, calato d’arcione, picchiò ripetutamente alla porta. Il guardiano Francesco Fiorilli, svegliatosi di soprassalto, incominciò con parolacce ad inveire contro il disturbatore. “Apri, altrimenti do fuoco alla masseria e ti arrostisco come un pulcino” disse Caruso. Il Fiorilli, che dalla voce aveva conosciuto il masnadiere, corse ad aprire e porse le scuse. âPer San Michele benedetto, per farti muovere ci voleva tanto e non vedi che con questo freddo si può prendere la bronchite ?â Poi aggiunse âporta questo biglietto al tuo padrone, e noi, per non perdere del tempo, ci mangeremo quei due montoni che stanno nella stallaâ. Scuoiarono i montoni i fratelli Santuccio e Angelo Polizzi. Cosimo Sciortino li cucinò. Il biglietto inviato al Colatruglio diceva:
“Caro don Lucio, mandati subito di pane vino salecicio per 300 persone 20 tomole di Biada e un piatto di poparuoli alla cete e 10 paccotti di sigheri e 10 bottiglie di Rosolio e 10 foglietti di carta Colorata altrimenti vi brugia tutto. Il colonnello Miche Caruso”.
1 giugno 1863 – Nicolangelo De Falco e Pellegrino Gozzi di S. Bartolomeo in Galdo, alle ore 2 p. m. del 1 giugno, trovandosi presso S. Marco dei Cavoti, furono assaliti dai briganti, fra i quali vi era una donna. I masnadieri, dopo un ordine tassativo di Caruso, scesero da cavallo, e dopo aver scaricato i muli del De Falco e del Gozzi si appropriarono di un involto contenente del tabacco e di una scatola, che racchiudeva oggetti di oro. Il De Falco volle far notare al capo di quei masnadieri che l’oro era dell’orefice Vincenzo Capuano e avesse perciò la bontà di restituirglielo. Il Pellegrino, in compenso, ebbe dal Caruso trenta legnate.
12 giugno 1863 – Una soffiata persuade Caruso ad incaricare elementi svelti ed efficienti ad impossessarsi del tesoro in oro dell’orefice Vincenzo Capuano di San Bartolomeo in Galdo, da lui depositato presso i compaesani Nicolangelo De Falco e Pellegrino Gozzi. La sortita riesce anche perchè effettuata alle due del pomeriggio, ora insolita per i furti. De Falco supplica i malandrini a non mandare in rovina l’amico; non ottiene altro che 30 legnate corrispondenti ad altrettanti invocazioni.
26 giugno 1863 – Furono trucidati presso S. Bartolomeo in Galdo, Leonardo Catullo di quello stesso Comune e Giovanni Maddaloni di Bonea, un povero viandante che faceva ritorno dalla Puglia dove era stato ad acquistare grano.
4 luglio 1863 – Il prefetto di Benevento Decoroso Sigismondi scrive: “Tra le bande di briganti che sogliono infestare questa provincia la più molesta è quella che sotto gli ordini di un tal Secola e composta di undici masnadieri a cavallo travaglia ferocemente e a preferenza il circondano di S. Bartolomeo in Galdo. Tuttoché incessantemente perseguitata ed incalzata nulladimeno si è finora sottratta ed ogni giorno si sottrae agli attacchi della forza pubblica in ciò aiutata forse dalla stessa pochezza del suo numero e certo dalla singolare rapidità e dalla incredibile audacia dei suoi movimentiâ. Il prefetto di Benevento Sigismondo, per stimolare lo zelo della forza pubblica, previo accordo col Governo, promise a chi avesse catturato il Caruso lire 20.000.
11 luglio 1863 – In questo giorno Caruso è atteso nei pressi di San Barolomeo in Galdo luogotenente Schiavone. Si contano gli uomini: 40 di Caruso e 30 di Schiavone. Un nuovo affiliato Pasquale Sivestri da San felice a Cancello di professione vetturale e disertore del II reggimento fanteria, aspira ad assumere una funzione di spicco tra i componenti. E’ lui che sulla strada che da San Bartolomeo porta a Benevento, uccide il 15 luglio due manovali del telegrafo impegnati nella riparazione dei fili e alla fine del mese sequestra il procaccia Silvestro Troise derubandolo della valigia postale.
9 settembre 1863 – La banda Caruso aveva sterminato il 7 settembre, in contrada Cancinuto di Castelvetere Val Fortore, diciotto tra uomini e donne, vecchi e fanciulli. In San Bartolomeo si viene a sapere dell’eccidio, si dà l’allarme, si suonano a stormo le campane, si raccolgono volenterosi in aiuto alle Guardie Nazionali, Carabinieri Reali e Guardie di Pubblica Sicurezza. Caruso non vuole arretrare, anzi ceca il combattimento. Va diritto sull’abitato. I paesani temono l’invasione, quando Caruso intima il dietrofront, via tutti a sequestrare don Giuseppe Iafaioli, don Angelo Maria Gisoldi, Domenico Del prete e Domenico De mora. Tutti uccisi, anche i primi due, nonostante le famiglie Iafaioli e Gisoldi abbiano subito raccolto 1400 ducati. Nel corso dei sequestri alle masserie feriscono quattro individui.
10 settembre 1863 – Carneficina ancora maggiore ebbe a verificarsi a S. Bartolomeo in Galdo, sempre ad opera del Caruso. Furono assassinate da 30 a 40 persone . Altri, come Mattia Cifelli e Michele Cenicolo, morirono in seguito alle ferite riportate. Anche a questa carneficina era presente il Secola. Nel mese di settembre, dopo l’approvazione della legge Pica che colpiva i manutengoli e i favoreggiatori, Michele Caruso, vedendo forse che i contadini esitavano sempre di più nel sostenerlo, esplose in veri atti di estrema ferocia. Ebbro di sangue, nel suo odio contro le guardie nazionali prese a colpire ciecamente e spietatamente tutti quelli che fossero sospettati di tradimento. Da solo o in unione con altri capibanda, che in genere accettavano di collaborare in sottordine con lui, egli commise dei veri stermini.
22 ottobre 1863 – Caruso toglie al posteriore di San Bartolomeo in Galdo tutta la corrispondenza e lo sequestra.
29 ottobre 1863 – La banda Caruso, mentre stava riposando nella messeria di Ianni Domenico in tenimento di San Bartolomeo in Galdo fu messa in fuga dalla Guardia Nazionale.
15 novembre 1863 – I manutengoli di San Bartolomeo in Galdo sono guardati a vista e Giovanni Zeolla va troppo in giro, lo mettono in carcere e battendo la strada che egli era solito fare, tre giorni dopo arrestano il brigante Nicola Tocci, ferito al ginocchio sinistro .
12 dicembre 1863 – A Benevento viene giustiziato il brigante Michele Caruso è la fine del terrore.