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San Bartolomeo in Galdo: 5 ottobre 1943, l’Apocalisse

L’Italia era in guerra da oltre tre anni, sempre fedeli alle forze all’Asse, ma il conflitto volgeva al peggio e Sua Maestà Vittorio Emanuele III, cominciò a guardarsi intorno ed a cercare una via di fuga.

Gli fu suggerita dal suo stato maggiore e dai gerarchi del fascismo più illuminati, o come si usa dire oggi: “responsabili”.

Abbandoniamo Mussolini, rompiamo il patto con l’Asse e firmiamo l’armistizio con gli Alleati e salviamo il Regno.

Il disegno prometteva bene, ma come si suol dire, si erano fatti i conti senza l’oste. E l’oste in quel caso erano le Panzer Division del Feldmaresiallo Albert Kesserling.

Il Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio del 1943 approvò l’ordine del giorno Grandi, che prevedeva la sfiducia al Duce. Hitler capì che quel voto avrebbe aperto una falla nell’alleato italiano. L’ottimismo di Kesserling non gli permise di vedere ciò che stava succedendo. Era convinto il Feldmaresciallo che l’alleato italiano sarebbe stato sempre al suo fianco, ma Sua Maestà la pensava diversamente e brigò con gli Alleati per una “pace separata”, in realtà una resa incondizionata camuffata da armistizio.

L’8 settembre 1943 fu reso noto l’armistizio firmato a Cassibile cinque giorni prima. I vertici militari italiani, il re Vittorio Emanuele III, il capo dello Stato Badoglio, il principe Umberto, prevedendo ciò che sarebbe successo, nottetempo scapparono prima a Pescara e poi a Brindisi. Una fuga ingloriosa, una delle tante vigliaccate della peggiore dinastia italiana, quella dei Savoia. Sono sempre più convinto che se a capo del processo unitario vi fosse stato finanche il Granduca di Toscana, staremmo meglio.

Improvvisamente l’esercito italiano si ritrovò senza ordini, quasi un milione di soldati italiani furono presi prigionieri dalla Wehrmacht. I tedeschi lanciarono immediatamente l’Operazione Asse. Kesserling sentendosi doppiamente tradito non lesinò brutalità.

Iniziò così il lungo ritiro dalla penisola dell’esercito tedesco, incalzato da Sud dalle forze alleate.

I teutonici cercarono di fare terra bruciata affinché gli angloamericani incontrassero molti ostacoli nel loro dirigersi verso nord.

I tedeschi fecero saltare ponti, ne fece le spese anche il nostro ponte Setteluci, ferrovie, centrali idroelettriche, non moltissime a Sud, strade, edifici istituzionali, acquedotti. Cominciarono le razzie, le angherie verso quella popolazione fino a ieri alleata.

Durante la loro ritirata verso nord, le truppe tedesche attraversarono la Valfortore, minato il ponte di Setteluci, volsero le loro truppe verso Castelvetere.

Attestatisi sulle alture di fronte a noi, l’esercito tedesco non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione per colpire il Comando Compagnia dei Regi Carabinieri di stanza a San Bartolomeo.

La mattina del 5 ottobre del 1943 i tedeschi posizionarono i loro cannoni a lunga gittata con le bocche di fuoco che miravano la caserma dei carabinieri, adiacente al convento dei frati minori, e in direzione del centro del paese. Verso mezzogiorno si sentirono i primi colpi e si videro le prime esplosioni. L’obiettivo principale erano i carabinieri, pertanto la gente scappava da nord verso la parte meridionale del paese.

A quel punto i tedeschi scaricarono una pioggia di fuoco anche verso il centro abitato, e fu una strage. Sangue, devastazione, feriti e morti. Il bombardamento durò molte ore. Il fumo, le grida di dolore e paura, le esplosioni, le fiamme, i crolli, crearono un immenso inferno.

Quando i tedeschi decisero di fermarsi, scese una cappa tombale sul nostro borgo. La coltre di fumo si innalzò, lasciando agli occhi sbarrati di spavento dei superstiti uno scenario di morte e desolazione.

Mestamente iniziò il lugubre riconoscimento di quei corpi martoriati dalle esplosioni. La prima ad essere riconosciuta fu la vedova Maria di Dio di 76 anni. Fu poi la volta di Maria Rosaria Pepe di 31 anni, sposata. Tra le macerie fu riconosciuto anche il corpo della giovane Clelia Renzi di 25 anni e del celibe Carlo Emanuele Capuani di 53 anni.

Sotto la pioggia di bombe furono spezzate anche le vite dei piccoli Angelo Mormone di 14 anni e di Immacolata Ruggiero di 11 anni.

Infine fu ritrovato esanime Francesco Palumbo di anni 29, da poco sposato.

La conta dei morti si fermò a sette. Il tributo di vittime civili che San Bartolomeo ha sacrificato alla Nazione.

La maggior parte dei morti si ebbe in Largo del Giglio, odierna piazza Garibaldi. Le schegge delle granate oltre a seminare morte provocarono anche danni agli edifici.

Di quei bombardamenti resta memoria, ormai labile, nelle menti dei più anziani, nei registri di morte e soprattutto nel lampione di metallo che si erge al lato nord della stessa piazza, che conserva nel suo basamento in ghisa la sagoma di una scheggia rovente di granata.

Sarebbe rispettoso, il prossimo quattro novembre, deporre un mazzo di fiori ai piedi del basamento per ricordare il tributo di sangue che il nostro borgo ha pagato il 5 ottobre 1943.

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