Non ricordo quando è cominciato. Forse a fine anni ’90 o forse nei primi anni del terzo millennio. Non che qualche anno in più o in meno faccia molta differenza.
Ho iniziato a percepire il vuoto e la chiusura nelle sere d’inverno, quando, per usare l’incipit più famoso di sempre: Era una notte buia e tempestosa, vagavo per le viuzze del paese. I colpi a volte erano sordi, provenivano dall’interno delle case, forse porte che sbattevano, a volte forti ed esterni, notavo le ante delle finestre sbatacchiare contro i muri.
Quella baraonda di colpi governata dal vento recitava un unico mantra: questa casa è abbandonata, vuota.
Ed allora quasi per darle un ultimo sussulto di vita ricordavo il suo ultimo abitante, zia Giuseppina, Tonino, zi’ Salvatore, Annunziata, Renato, zi’ Donato, Angelina, Filomena.
Prima che cominciasse, la morte di una persona era una perdita dolorosa, ma la vita della casa continuava, riprendeva fino a raggiungere un nuovo equilibrio.
Ma quando tutto è cominciato, la morte di una persona è coincisa con la morte della casa, in una similitudine inquietante con i guerrieri longobardi che venivano sepolti in compagnia dei loro cavalli. Anche le abitazioni muoiono con i propri padroni.
Tetti che crollano, porte divelte, vetri rotti alle finestre, intonaci fatiscenti, solo le più fortunate potranno sperare di vivere ancora, ma la maggior parte andrà incontro all’infausto destino.
Abbiamo provato malinconicamente a far rivivere quelle case, invogliando gli eredi a venderle a poco prezzo, a volte alla simbolica cifra di un euro, siamo consci che non è la soluzione, anzi, potremmo definirla una resa.
Come scrive l’antropologo Giuseppe Melillo, vendere case ad un euro è come equipararle a delle cianfrusaglie da svendere in un mercato.
Crediamo che una casa che abbia 200 o 300 anni non lo meriti, forse è meglio evitare accanimenti e lasciarla morire dignitosamente.