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San Bartolomeo in Galdo
giovedì, 21 Novembre 2024

La chiesa Madre

La nostra “chiesa madre” che con il suo campanile-torre, simbolo del paese, si erge maestosa in corso Roma al civico numero 1. Fungeva da cattedrale sin dal 1332, cioè da quando i vescovi della diocesi di Volturara vi trasferirono di fatto la loro sede, edificandovi successivamente anche il palazzo vescovile tuttora esistente. A quei tempi, dunque, secondo la tradizione religiosa esistevano due chiese: quella parrocchiale eretta nel 1330 dall’abate Nicola da Ferrazzano (sui resti di un’antica cappella del 1277), restaurata dopo il terremoto del 1456 grazie all’abate commendatario Domenico di Lagonissa arcivescovo di Rossano (altri Rossana, ndr), e quella dell’Annunziata edificata nel 1498. Con il passare degli anni e con il continuo incremento della popolazione urbana, queste chiese si dimostrarono però troppo piccole ed inadeguate per i bisogni spirituali dei fedeli e le esigenze del culto.

Fu così che si decise di ampliare di nuovo la vecchia chiesa parrocchiale, ben presto rinominata, appunto, chiesa madre, in quanto la più grande del paese. Gli storici, successivamente, la definirono Vera Cattedrale 15 Episcopale. Abate commendatario era il cardinale di San Clemente Tommaso Maria Ferrari. Il giorno 8 del mese di luglio dell’anno 1703 l’eminentissimo cardinale fra’ Vincenzo Maria Orsini, arcivescovo metropolita di Benevento (eletto poi papa il 29 maggio 1724 con il nome di Benedetto XIII), consacrò la nuova chiesa voluta dal citato abate, sotto il titolo di san Bartolomeo apostolo. A ricordo, ecco l’iscrizione che si rileva dalla lapide di marmo posta al suo interno, in prossimità dell’ingresso secondario, lato campanile: «ECCLESIAM HANC, VETUSTATE DECIDUAM, CAPPELLARUM MULTITUDINE ET SITUS IRREGULARITATE DEFORMEM FR.VINCENTIJ MARIÆ ORD. PRŒD. CARD. URSINI ARCHIEPISCOPI BENEVENTANI ET APOSTOLICI VISITATORIS DECRETO, PIJS VERO AC LARGISSIMIS FR. THOMÆ FERRARIJ PRÆLAUDATI ORD. PRŒD. CARDINALIS S. CLEMENTIS NUNCUPATI, ABBATIS COMMENDATARIJ, ELEEMOSYNIS ET ECCLESIÆ EIUSDEM, AC CONFRATERNITATUM SUMPTIBUS SYMMETRICE INNOVATAM, PLASTICE EXCULTAM ET DECORI, VENUSTATI AC SPLENDORI, UT DEI DOMUM DECET REDDITAM, IN HONOREM DEI, ET SANCTI BARTHOLOMÆI APOSTOLI, UNA CUM ARA MAXIMA SOLEMNI RITU DEDICANS DIE VIII IULIJ MDCC III SACRAVIT IDEM CARD. URSINUS ARCHIEPISCOPUS, QUI UNIVERSIS CHRISTI FIDELIBUS, IPSAM VISITANTIBUS DIE XX OCTOBRIS, AD QUAM ANNIVERSARIAM DEDICATIONIS HUIUSMONDI FESTIVITATEM TRANSTULIT, CENTUM INDULGENTIÆ DIES PERPETUO CONCESSIT». («Questa chiesa cadente per la vetustà, deforme per la moltitudine delle cappelle e per l’irregolarità del sito, per decreto di Fr. Vincenzo Maria cardinale Orsini dell’Ordine dei Predicatori arcivescovo di Benevento e Visitatore apostolico e per verità con le pie e generosissime elargizioni di Fr. Tommaso Ferrari del prelodato Ordine dei Predicatori cardinale di san Clemente, abate commendatario, e a spese della stessa chiesa e delle confraternite, rinnovata simmetricamente, plasticamente adornata e restituita al decoro, alla bellezza e allo splendore, come si conviene alla Casa di Dio, dedicandola in onore di Dio e di san Bartolomeo apostolo con solenne rito insieme con l’altare maggiore consacrò il giorno 8 luglio 1703, lo stesso cardinale arcivescovo, il quale a tutti i fedeli di Cristo che la visitano il giorno 20 ottobre, al quale trasferì la festa anniversaria di questa consacrazione, concesse in perpetuo cento giorni di indulgenza»). Al termine di questa prima fase dei lavori il nuovo tempio si presentava dunque a una sola navata. Sull’altare maggiore di marmo policromo (sopraelevato da otto scalini), avvolto da uno stupendo coro ligneo in stalli di noce, troneggiavano (esposte nelle rispettive nicchie), i già citati mezzi busti argentei reliquiari dei compatroni, vale a dire dell’apostolo san Bartolomeo e del beato Giovanni eremita da Tufara. Quest’ultimo, come già riferito, risulta datato 1658, mentre quello di san Bartolomeo, risalente al 1767, come già detto, è stato da esperti attribuito in via ufficiosa, al maggiore scultore della scuola napoletana del XVIII secolo, Giuseppe Sanmartino. Note particolari a) In merito al menzionato altare maggiore, dono del vescovo di Volturara, nella parte interna delle balaustre compare la scritta: «JOAN COCCOLI ARPINAS EPIS VVLTURIAE ET MONTIS CORVINI EX SVA DEVOTIONE FECIT AD M ٠DXXIX PRÆSVLATVS SVI A. XX». («Giovanni Coccoli di Arpino, vescovo 16 di Volturara e di Monte Corvino, per sua devozione fece A.D. 1709 nel ventesimo del suo episcopato»). b) Sempre a nome del suddetto vescovo, sotto l’altare maggiore lato sinistro, troviamo a ricordo una lapide posta dai fedeli, con scritta in latino datata 1770, parzialmente illeggibile:«D.O.M. Joannis Coccoli Vvltvriae Episcopj et Montis Corvini a perennitati hoc locvlo CIƆIƆCCLXX». c) Sulla parete sinistra lato ingresso secondario, troviamo una targa marmorea nella quale si cita la seconda visita fatta il 24 luglio 1707, dal già citato fra’ Vincenzo Maria cardinale Orsini arcivescovo di Benevento, in occasione della consacrazione degli altari alla Beata Vergine Maria, con relativa indulgenza di 100 giorni a quelli che visitano gli altari predetti nei singoli giorni festivi di ogni anno. d) Sulla parete destra, lato ingresso principale, una targa marmorea reca la seguente dicitura: «D.O.M. PERENNITATI. MEMORIAE ERASMI. FORTVNATI. SVBCENTVRIONIS. STRENVISSIMI QVI RELIGIONI REGI PATRIAE AMICIS PIETATE FIDE AMORE OFFICIIS CVMVLATE SATISFECIT BLASIVS ZVRLO DAVNIAE PRAEFECTVS HVNC LAPIDEM SVI AMORIS ET DESIDERII TESTEM SEMPITERNVM P.C. AN. R.S. CIƆIƆCCCXXIII»). («A perennità del ricordo di Erasmo Fortunato sottocenturione valorosissimo, il quale compì il proprio dovere pienamente verso la Religione, il Re, la Patria, gli amici, con devozione, fede, amore, Biagio Zurlo, con funzioni di Prefetto della Daunia, a testimonianza del suo valore e rimpianto vi pose per sempre. Anno 1823»). e) Sui pilastri che delimitano la navata centrale da quella di sinistra e di destra, ad altezza d’uomo, si trovano due rosoni di ottone del diametro di circa 20 centimetri con al centro la sagoma di una croce e la scritta «Jesvs Homo Cristvs Devs », circondata da un’altra scritta a semicerchio con le parole: «Vivit Regnat Imperat MCMI». Esternamente, infine, un’altra scritta a forma di cerchio recita: «Oscvlantibus Crvcem Hanc In Ecclesia Positam Et Recitantibvs “Pater” Indvlgentia 200 Diervm Semel In Die». («Gesù Uomo Cristo Dio Vive Regna Impera – 1901 – A quelli che baciano questa croce in Chiesa e che recitano il Pater” una indulgenza di 200 giorni, una sola volta al giorno»). f) Come già scritto, nel 1541 una parte delle venerate reliquie del beato Giovanni eremita da Tufara furono traslate nella chiesa di San Bartolomeo in Galdo e custodite in una sorte di tabernacolo d’altare in pietra di antica consuetudine. Il tabernacolo, da me visionato il 16 agosto 2010, si trova sulla sinistra dell’altare maggiore, nelle vicinanze del passaggio che porta alla cappella del SS. Sacramento, e riporta la seguente epigrafe: «TIBERIVS HIC ARCHIPRESBYTER TRANSTVLIT ALMVN CORPVS EREMITÆ VT ORET ANTE DEVM ٠1541 ٠». («L’arciprete Tiberio in questo luogo trasportò l’almo corpo dell’eremita per pregare davanti a Dio ٠ 1541 ٠»). La data impressa su questo tabernacolo è di notevole importanza: testimonia che la chiesa (come già riferito), parzialmente distrutta dal terremoto del 1456, era tornata al suo splendore, grazie all’interessamento del citato abate commendatario Domenico di Lagonissa, come risulta da un manoscritto che si conserva presso la “Biblioteca Apostolica Vaticano”, catalogato come Codice Vaticano Latino 5959. 17 Dopo queste note particolari, torniamo alla nostra storia. Nel 1849, a circa un secolo e mezzo dall’edificazione, con il contributo di 1200 ducati elargiti dal re di Napoli Federico II la nuova chiesa venne ampliata con una navata laterale sinistra mediante la costruzione di una cappella per la custodia del Santissimo Sacramento ( con statua lignea del SS. Cuore di Gesù posta al centro dell’altare all’interno della propria nicchia, ancor oggi presente: alla sua sinistra statue lignee di san Pietro e della Madonna dell’Assunta, e alla sua destra statue lignee di sant’ Anna con Bambino e sant’Antonio da Padova). In alto la figura di un uccello tra due Angeli con la scritta: « PIE PELLICANE JESVS DOMINE. («O pio pellicano Signore Gesù»). Con due sole navate, però, il sacro edificio non parve esteticamente perfetto. Così, a distanza di soli due anni, nel 1851, venivano ripresi i lavori di ampliamento per la costruzione di un’altra navata, questa volta di destra, con annessi i locali per la sacrestia, lavori portati avanti grazie alle numerose offerte dei cittadini e alla benevolenza del vescovo di Lucera mons. Giuseppe Iannuzzi che offrì trecento ducati e cedette tre stanze dell’attiguo palazzo vescovile. La cappella fu dedicata alla Madonna del SS. Rosario. Al centro è tuttora presente una statua lignea raffigurante la Madonna del Carmine (ovvero la Madonna dei Fiori), circondata da statue lignee raffiguranti san Giuseppe con Bambino, san Michele Arcangelo, san Donato e san Domenico. Nella parte inferiore sinistra dell’altare troviamo la seguente incisione: «A divozione (sic) di Luisa Braca A.D. 1857»; nella parte superiore destra: «A devozione can.co Luca Braga maggio 1918». Il tempio risultò quindi alla fine a pianta di croce latina con tre ampie navate separate da due file di colonne. A quella di destra fu unito l’attuale campanile. Si racconta che anticamente al suo posto esisteva forse un rudere di un castello o – addirittura- avanzi di un’antichissima torre sannitica. Di sicuro questa massiccia torre campanaria di notevole altezza (circa 35 metri), riparata nel 1582 (come da sigla posta al suo ingresso) dal vescovo di Volturara Giulio Gentile («riduceva il campanile a migliore condizione), risultava preesistente alla costruzione della chiesa. Da qui la “congiunzione” durante i lavori per la navata. La strana cupola moresca (tipo saracena), ornata di maioliche gialle e verdi come i colori del paesaggio, con il “guerriero” scolpito in alto tra le sue pietre, segna da lontano il culmine del centro antico, con edifici in pietra disposti lungo una strada principale che è la spina dorsale da cui si dipartono, numerosi, i nervi sottili dei vicoli stretti e sassosi (per usare le immagini descritte in Vi presento il paese di Maria Grazia Matera). Nella cripta troviamo diversi pezzi di argenteria sacra (calici, ostensori, pastorali, reliquiari), documenti (pontificali, messali, volumi dell’archivio parrocchiale) e numerose vesti liturgiche (pianete romane e gotiche, piviali, dalmatiche e mitrie) appartenute ai vari vescovi che si sono avvicendati in questa sede, tra il XVI e XVII secolo. Tra queste testimonianze spiccano: 1) un “messale” donato dal papa Albani (Clemente XI 1700-1721), con legatura romana in cuoio, caratterizzato per le sue insegne impresse in oro; 2) un “pianeta” dell’episcopato Pedicini (1718-1724), di manifattura napoletana, in taffetà rosso laminato, ricamato; 3) un “piviale” di mezzo damasco di manifattura meridionale risalente al periodo 1720-1730; 4) una “mitria preziosa” in oro e argento, con perle e gemme policrome del secolo XVII di manifattura italiana (uno dei pezzi più rappresentativi). Per quanto riguarda infine l’argenteria, un oggetto eccelso è senza dubbio l’ostensorio in oro, smalti e pietre preziose del valore – a suo tempo – di seimila ducati e che le cronache locali dicono essere stato donato dall’abate commendatario Antonio Bernardo Gürtler (Falkenau 1726-Roma 1791), confessore di Maria Carolina d’Austria, consorte di Ferdinando IV re di Napoli. Nella parte posteriore del globo è 18 infatti inciso uno stemma episcopale, evidentemente da riconoscere in quello del menzionato abate, che a Napoli il 29 giugno 1773 sarà consacrato vescovo di Thiene. Si dice inoltre che la cripta ospitasse anticamente spoglie di vescovi ed arcivescovi della nostra diocesi. Sono presenti numerosi stemmi episcopali dei presuli di Volturara tra il XVI e XVII secolo la cui cronotassi araldica è a tutt’oggi assai lacunosa. Le basse volte presentano ancora degli affreschi raffiguranti il bosco vicino e la città in fiamme, contornati dai menzionati stemmi. Al centro del soffitto, l’Immacolata concezione, assieme a san Michele e altre figure di oranti, una nave in tempesta e un morente disteso nel suo letto completano il decoro. Tutto questo senza date di riferimento. Per quanto sopra, ecco il pensiero di Vincenzo del Re espresso nel libro San Bartolomeo in Galdo, nei suoi aspetti storici, geografici e folcloristici, edito dalla tipografia Laurenziana (Napoli, 1962, p. 56): «L’interno della chiesa, restaurata nel 1941 ad opera dell’Arciprete don Giulio Scrocca, è a croce latina con le volte in muratura poggianti su poderosi pilastri. Di scarso pregio artistico sono i quadri e le decorazioni; importante, invece, gli affreschi settecenteschi, il coro in legno intarsiato, gli altari e le balaustre. Tra le tele, di buona fattura sia dal punto di vista del disegno e della decorazione, che della composizione, sono da citare: la Sacra Famiglia, l’Incoronazione e l’Immacolata. L’altare maggiore, in marmo policromo, è del primo settecento. Per tali lavori il vescovo don Giovanni Coccoli contribuì con la somma di 951 ducati. Prezioso e importante è il tesoro, ricco di due statue d’argento che rappresentano i Santi Protettori, S. Bartolomeo e S. Giovanni Eremita, e di svariati arredi vescovili e sacerdotali. Di sorprendente manifattura e d’inestimabile pregio e valore è la sfera di oro massiccio, donata alla chiesa dalla regina Carolina d’Austria tramite il suo confessore Antonio Curtler (sic), Abate Commendatario». Il prospetto principale della chiesa, di grande interesse architettonico, presenta un portale con arco ogivale e reca nella lunetta un bassorilievo raffigurante la Pietà. Più in alto, una statua dell’apostolo san Bartolomeo; sopra la statua, spicca uno splendido rosone in stile tardogotico con lo stemma dei Carafa, nobile e antica famiglia, feudataria per quasi un secolo nel Comune di San Bartolomeo in Galdo. Questo portale, spiega Mario Rotili (L’arte del Sannio, Benevento 1952, pag. 108), «è formato in pietra serena, del tipo a cappuccio che rivela uno stile piuttosto rinascimentale, con rosoncino di gusto catalano, mentre la statua del Santo, che sormonta la lunetta a pieno centro del medesimo, ha un carattere arcaizzante». In questo nuovo grande tempio le due colonne esterne che delimitano il portale (dai capitelli decorati con elementi tratti dalla flora) sono poggiate su gattoni raffiguranti dei leoni stilofori (portatori di colonne, ndr). Nella parte bassa degli sbalzi laterali è impresso lo stemma dell’antico monastero di Santa Maria di Gualdo Mazzocca, costituito dal monogramma ricavato da due lettere: una F sovrapposta nella parte centrale da una M, significante Feudo Mazzocca (Feudun Mazzoccae), vale a dire l’emblema dell’antico e insigne monastero, a dimostrazione del dominio degli abati benedettini e la badiale condizione della chiesa, come “sigillo della badia”. Giova precisare che secondo altre interpretazioni il monogramma significherebbe Fratres Monasterii, perché i monaci usavano la sigla (FM) sui confini delle loro terre; per altri ancora – forse con un po’ di fantasia – la sigla indica le iniziali di Ferrucci Mainardo, padre dell’eremita Giovanni da Tufara. In merito, dal libro San Bartolomeo in Galdo – Immunità, Franchigie, Libertà, Statuti (ed., Napoli, 1994, pag. 29), ecco il pensiero di Fiorangelo Morrone: «Secondo una tradizione i portali delle due chiese verrebbero dal monastero di Mazzocca. A parere 19 mio, è poco probabile che il monastero avesse due portali con lo stemma. Ritengo che essi sia stati scolpiti sul posto, allorché nel centro più importante del grande feudo di Mazzocca – divenuto sede ordinaria del vescovo di Volturara, sede preferita dell’abate commendatario, sede della giurisdizione criminale di tutte le terre del monastero – furono costruite o rifatte sia la chiesa dell’Annunziata che la chiesa madre». Questa tesi, per quanto riguarda gli stemmi, è anche avvalora da fra’ Tommaso da Morcone (Giuseppe Plensio) che nel libro San Marco la Catola (ed., 1992) a pag. 80 afferma: «Tale stemma appare ancora oggi inciso sul portale della chiesa rurale di Santa Maria della Vittoria, in agro di Gambatesa, già possesso del monastero di Mazzocca; su una campana della stessa chiesa; su una pietra del campanile di Gambatesa». Anche chi scrive può suffragare questa tesi: ho potuto accertare che la menzionata sigla (FM) è incisa anche sul fronte dell’arcata della Porta Provenzana, posta all’inizio del supportino stesso, lato via Orto della Terra, mentre non appare sul portale della chiesa dell’Annunziata. Una precisazione La sigla è riportata anche sull’entrata secondaria della chiesa, sulla destra – lato campanile – in prossimità del I° Supportico Chiesa. Questo ingresso (risalente all’epoca della costruzione della navata di destra e cioè all’anno 1851), è delimitato da resti di un portale molto antico impresso contro il muro, anch’esso in pietra serena, privo dei famosi gattoni, ma con un particolare inedito: nella parte superiore, all’interno di una sagoma a forma di scudo, si vede la figura di un cervo con corna ramificate, delimitata nella parte superiore dei due lati dal menzionato stemma dalle sigle (FM) e nella parte inferiore da due ornamenti floreali, disposti in modo da formare un ipotetico rettangolo con cornice a corda tortile. Infine, all’interno della lunetta, decorata con altorilievi, troviamo una Madonna con Bambino, delimitata da due angeli, molto simile a quella impressa sopra l’ingresso principale. A mio parere, questi resti potrebbero forse risalire addirittura alla prima chiesa costruita nel 1330, (parzialmente distrutta – come già riferito – dal terremoto del 1456) e successivamente ricostruita. Ma è solo una supposizione. Nel 2001, prima dell’inizio dei restauri della basilica di San Bartolomeo apostolo di Benevento del 1729, l’arcivescovo Serafino Sprovieri ha indetto la terza ricognizione canonica delle reliquie del santo lì depositate. Dall’ampolla vitrea n. 4 sono stati prelevati alcuni frammenti ossei destinati alla chiesa cattedrale di Benevento, alla cattedrale di Lipari e alle sei parrocchie dell’arcidiocesi di Benevento intitolate all’apostolo: Apice, Montecalvo Irpino, Monte Rocchetta, Paduli, Petruro Irpino e San Bartolomeo in Galdo. Il 24 agosto 2010, durante la SS. Processione in onore dei patroni del paese, ho constatato sul busto di san Bartolomeo apostolo, all’altezza del petto all’interno di una piccola teca in bronzo dorato, la presenza della menzionata reliquia. Nel febbraio 2009, con l’intervento di mons. Andrea Mugione, arcivescovo metropolita di Benevento, è stata inaugurata con solenne benedizione una porta di bronzo posta all’ingresso principale della chiesa, a devozione di Esterina Reino. Incisa dalla Domus Dei Roma, su progetto dell’artista Valeria Sicilia, è divisa in due ante con impresse 24 formelle in bassorilievo di 45 centimetri per lato raffiguranti: su quella di sinistra (per chi guarda) 12 scene della vita dell’apostolo san Bartolomeo e, su quella di destra, 12 della vita del beato Giovanni eremita da Tufara. Alla base della porta vi è questa incisione: «INTROITE PORTAS EIUS IN CONFESSIONE ATRIA 20 EIUS IN HYMNIS CONFITEMINI ILLI LAUDATE NOMEN EIUS (sal. 99,4) AD MMIX». («Varcate le sue porte con inni di grazie i suoi atri con canti di lode lodatelo benedite il suo nome – sal. 99,4 – Anno 2009»). In merito alla succitata inaugurazione, dal social network Facebook riporto le riflessioni del gruppo Sagrestia 4 Ever fondato da Salvatore Pepe: «Cari amici, un tempo S. Bartolomeo in Galdo è stata una grande e importante cittadina, ricca di storia, di cultura, di attività, di vita. Oggi, purtroppo, di tanta grandezza rimangono soli pregevoli resti e un malinconico ricordo: ne è segno evidente il fatto che tanti nostri concittadini, pur amando il loro paese, per vivere dignitosamente, sono ancora costretti a trasferirsi altrove. La storia ci dice che il paese è nato attorno alla chiesa di San Bartolomeo. La Chiesa Madre è il luogo della Memoria, è il “segno” più evidente del grande passato: da lì può ripartire la rinascita! La Porta di Bronzo che inauguriamo vuol essere solo un ulteriore “segno” della volontà di non rassegnazione al degrado e alla mediocrità, è un monumento solenne, importante, bello, che non solo arricchisce e nobilita la nostra chiesa (già Cattedrale!), ma dice pure che questo popolo vuole reagire, vuole riportare il proprio paese ai vecchi splendori: un popolo che ha saputo lavorare, lottare, costruire nei secoli, non può e non vuole “lasciarsi cadere le braccia” vinto dalla rassegnazione. La Porta di Bronzo, realizzata grazie alla generosità e alla sensibilità della nostra concittadina Sig.ra Reino Esterina, resterà nei secoli come testimonianza e monito alle generazioni future che anche questa generazione ha saputo e voluto realizzare cultura, progresso e bellezza! Ridare solennità, dignità e grandezza alla Chiesa Madre sia da stimolo e da sprone a quanti vogliono impegnarsi, con serietà e generosità, alla crescita materiale, morale e sociale del nostro paese». Con l’augurio che anche questa mia ricerca sia di “stimolo” e “sprone” nei confronti dei cittadini di San Bartolomeo in Galdo, termino con questa ultima annotazione: i lavori di restauro al campanile della menzionata chiesa sono stati ultimati nel mese di agosto del 2010. In tale occasione anche le statue della Madonna di Lourdes e della pastorella Bernadette poste – in occasione dell’anno Mariano 1954 – all’interno della grotta ricavata nella base del campanile stesso, sono state restaurate dall’artista Anna Maria Margiore, valente pittrice citata in svariati cataloghi d’arte per le sue tante opere esposte in varie circostanze.

Paolo Angelo Furbesco, agosto 2010

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