La fortuna dell’Abbazia di Cluny è insita nella sua nascita, a differenza delle altre grandi abbazie, Cluny con la riforma approvata da Giovanni XI nel 931, veniva sottratta all’influenza di ogni autorità laica ed ecclesiastica, tranne che alla Santa Sede stabilendo così l’indipendenza cluniacense, che sarà alla base della Congregazione di Cluny, con abbazie sparse in tutta l’Europa.
In piccolo la fortuna di San Bartolomeo in Galdo è molto simile, il paese, nato per volere dell’Abbazia di Santa Maria del Gualdo non era soggetto direttamente al baronaggio, né tantomeno a quel gruppo di aristocratici che nei paesi meridionali controllando o gestendo capillarmente le attività produttive, non permisero uno sviluppo della borghesia locale. L’esenzione fiscale concessa dagli Statuti del 1331 a chi si trasferiva a San Bartolomeo attirò moltissima gente, anche l’assenza di un baronaggio oppressivo fece da incentivo all’aumento della popolazione. Lo sviluppo demografico fu così tumultuoso ed abnorme che nel ‘500 L’Universitas di San Bartolomeo de facto divenne sede episcopale. Ad inizio ‘600 la popolazione passò rapidamente da 300 a 600 fuochi. Calcolando approssimativamente 4 persone per fuoco, la popolazione del paese contava circa 1200 abitanti.
Una curiosità, che dimostra l’assunto che a San Bartolomeo vogliono più bene i forestieri che i sanbartolomeani, ci è data dal vescovo di Volturara e dei Monti Corvini Alessandro Geraldini. Il prelato, insigne diplomatico al servizio sia della Chiesa che dell’Impero, per i suoi servigi fu nominato da Carlo V, l’Imperatore sul cui regno non tramontava mai il sole, primo Arcivescovo di Santo Domingo nel Nuovo Mondo. Monsignor Geraldini, sebbene fosse stato in queste zone pochissime volte, a causa del suo lavoro di diplomatico, tuttavia mai le dimenticò e da Santo Domingo inviò in Valfortore le sementi del mais. La Valfortore è stato il primo posto in Italia meridionale, uno dei primi in Italia in cui iniziò la coltivazione di questa nuova pianta che tanto beneficio portò alle popolazioni.
Il titolo del nostro scritto è fuorviante, i Catalano non vennero a San Bartolomeo, non apparirono dal nulla, la loro presenza è accertata in paese fin dal ‘500.
Nella prima metà del ‘600 il “padrone” di San Bartolomeo fu Diego Giannino e poi suo figlio Marcello. I Giannino erano originari di Roseto e di Volturino e possedevano beni in mezza Valfortore. Erano così ricchi che chiesero al vescovo di Volturara di affittargli la stessa abbazia, il contratto fu stipulato a Roma dal procuratore del Giannino Carlo Mentalis e stabiliva che il Giannino divenisse affittuario dell’Abbazia per nove anni dal 1641 al 1650 contro il versamento di un canone annuo di 3200 ducati.
I Giannino non solo divennero possessori dell’abbazia, ma erano anche i maggiori creditori dell’Universitas di San Bartolomeo.
Crebbe il nostro paese nella prima metà del ‘600, sia demograficamente che economicamente. Basti pensare che nel 1637 la classe dirigente adottò il sistema dell’appalto unificato delle entrate, e comunicò che la migliore proposta che era stata fatta nella licitazione fu di 5500 ducati, una cifra considerevole se si pensa che in quegli anni l’offerta proposta a Benevento fu di 6000 ducati.
Se al vertice della piramide c’erano i Giannino, alle loro spalle si muovevano sia la vecchia classe dirigente formata dai Colarusso, Minichillo, D’Onofrio, Colucci e Petrillo, sia i nuovi “creditori istrumentarii”, creditori dell’Universitas quali i Colatruglio, ed i Colabelli.
A dimostrazione di come a San Bartolomeo senza quella classe baronale e aristocratica che fungeva da tappo a qualunque ascesa sociale vi è la vicenda dei Colatruglio, Camillo “massaro” decise di ampliare le sue attività puntando anche sull’allevamento. In modo lungimirante Camillo affidava a terzi la lavorazione dei suoi terreni e delle sue mandrie e reinvestiva gran parte dei proventi in operazioni finanziarie, tanto che in breve divenne il secondo creditore dell’Universitas di San Bartolomeo dopo i Giannino.
Se Camillo era ancora considerato un agiato “massaro”, nel 1660 il figlio Angelo diverrà il “Signor don Angelo”.
Storie come quella di Camillo Colatruglio si replicheranno durante il secolo successivo, i grandi “massari” individuati nel catasto onciario diverranno ad inizio ‘800 la borghesia civile: i Pannone, i Gabriele, gli Anfora, i Vadurro, i Dota.
Una curiosità, i Colatruglio ed i Gabriele sono le uniche famiglie che hanno espresso un sindaco a San Bartolomeo, sia sotto i Borbone, sia sotto i Savoia, sia nella Repubblica italiana.
Ed i Catalano?
Nel catasto onciario del 1753 troviamo che le famiglie Catalano erano sartori e viaticali/possidenti. Il viaticale era colui che per mestiere trasportava merci mediante un carro da un luogo all’altro, altra famiglia storica di viaticali a San Bartolomeo furono i Marcasciano. Facevano dunque, parte i Catalano di quel 10% della popolazione che apparteneva alla classe degli artigiani, mentre l’85% era impegnato in agricoltura ed il 5% costituiva il ceto civile.
Una delle merci trasportate dai Catalano era il frumento, in particolar modo il grano. Il prezzo del grano, come ancora oggi, era soggetto a fluttuazioni, durante i mesi invernali quando vi era scarsità, veniva venduto a Napoli ed in altre città del Regno a prezzi elevatissimi, tanto che si formò una vera e propria casta che si accaparrava il grano durante i mesi estivi a prezzi bassi e lo rivendeva a prezzi altissimi nei mesi invernali, lucrando sulla consistente differenza di prezzo.
Probabilmente nella prima metà ‘700 si accese l’animo imprenditoriale del viaticale Catalano e si pose una domanda: perché trasportare in estate ai mercati di Foggia, Benevento, Napoli il grano a prezzi contenuti, quando è possibile lucrarci sopra e guadagnare molto?
Nel 1750 Lionardo Catalano viaticale padre di 10 figli decise che non tutto il grano dovrà essere trasportato ai mercati appena dopo la trebbiatura, ma iniziò a stiparne modiche quantità in depositi siti in paese. Lionardo corse un grande rischio, stipare il grano e contenderlo ai roditori ed inoltre, la mancanza di strade ed inverni particolarmente pesanti avrebbero potuto impedirgli di andare a venderlo nei mercati preposti per lucrarci sopra.
Il rischio fu ripagato, tanto che i figli di Lionardo, tra cui Michele, decisero di costruire un deposito molto più grande. La fortuna aiuta gli spiriti audaci e mentre Michele ed i fratelli stabilivano di costruire tale deposito, l’abate Gurtler per rispondere alla fame di abitazioni che cresceva nella perla del Fortore decise che si iniziasse la costruzione fuori Porta San Vito, nei terreni che vanno dall’abbazia dei Gesuiti, passata ai giudici De Martino (Martini) secondo l’Onciario del 1753 i più ricchi del paese con un patrimonio imponibile di once 2313, al convento dei Frati Minori Riformati.
Michele scelse un terreno che va in direzione della Capitanata per costruire il grande deposito fino ad allora solo immaginato. Iniziò così, probabilmente nel 1791 o 1792 la costruzione del granaio dei Catalano. La fortuna dei Catalano doveva essere considerevole, sia per costruire un grandissimo deposito a cui seguirà senza soluzione di continuità la costruzione del palazzo, sia perché fu accettata in quella che era la classe dirigente del paese fino ad allora come dimostrano i matrimonio del figlio Lionardo con Emmanuela Colatruglio e della figlia Maria Giovanna con Pietro Colatruglio dott. Fisico.
Lionardo nell’anagrafe voluta dal re di Napoli Gioacchino Murat fu indicato come viaticale/negoziante. I Catalano continuarono la vecchia attività, ma iniziarono anche a commerciare in grano con grande fortuna. Sul portale d’ingresso della scuderia che affaccia in via Margherita, ove oggi ha sede il supermercato Mongella, è visibile lo stemma che inizialmente scelsero per riconoscere la famiglia, una spiga di grano, trasformatasi successivamente quando la fortuna crebbe in modo esponenziale in un leone rampante che fa bella mostra sul portale di via San Francesco.
Se il deposito fu completato celermente, la costruzione del palazzo si protrasse per svariati decenni, tanto che nel 1853 doveva essere ancora in costruzione visto che nella monografia del Falcone non verrà citato nessun Palazzo Catalano tra gli edifici di maggior importanza di San Bartolomeo.
Fu il figlio di Lionardo Michele a compiere il definitivo salto sociale, Michele sposato con Maria Pasquala Capuani, sarà il padre di Pietro Antonio Catalano canonico, musicista, teologo, latinista, e di Lionardo.
Michele non verrà più rubricato come viaticale/negoziante, ma come proprietario. C’è una data che segna l’inizio dell’era Catalano per San Bartolomeo in Galdo ed è l’1 gennaio 1845. La fortuna economica dei Catalano crebbe così rapidamente che non poteva non ripercuotersi sulla vita politica del paese, quel primo gennaio Michele fu eletto sindaco, carica che mantenne per cinque anni. Dal 1845 al 1860 per 9 anni fu sindaco un Catalano, per cinque anni Michele dal 1845 al 1850 e dal 1857 fino all’Unità d’Italia il figlio Lionardo.
La loro continua amministrazione fu intervallata dalla sindacatura di Donato Martini e Donato Colabelli.
Che la ricchezza dei Catalano fosse cospicua era certificato non solo dalla continua costruzione del Palazzo, dalle acquisizioni di case, terreni e masserie, ma anche dagli “hobbies” che coltivavano gli appartenenti alla famiglia, tra i tanti ci hanno colpito le licenze di caccia rilasciate ad alcuni appartenenti alla famiglia nel 1848 dal Direttore Generale della Caccia del Regno delle Due Sicilie che permetteva ai Catalano di poter cacciare in tutti i domini reali del Regno, da Terra di Lavoro, alla Capitanata, dall’Abruzzo ai Principati Ulteriore e Citeriore.
L’Unità d’Italia accrebbe le fortune dei Catalano, con la vendita delle terre ecclesiastiche volute dai Savoia, chi aveva molta liquidità poteva acquistare moltissimi terreni, ed a San Bartolomeo coloro i quali fecero man bassa, avendone la possibilità economica, di terreni demaniali ed ecclesiastici furono i Catalano.
In un registro esattoriale da noi visionato leggiamo che i terreni della famiglia oltre a comprendere gran parte del territorio sanbartolomeano erano siti in Roseto, Foiano, Montefalcone, Volturara, Molinara, Volturino, Alberona, Tufara, Pietramontecorvino.
Le attività dei Catalano non erano più ormai focalizzate solo alla vendita di grano, ma gestivano mulini, vigne, orti, case, animali. Ci ha impressionato l’enorme mole degli affittuari e dei debitori della famiglia Catalano, parliamo di circa 300 famiglie sparse in tutta la Valfortore, con maggioranza ovviamente sanbartolomeana.
Dovette così tanto impressionare la gente semplice la fortuna accumulata dai Catalano che iniziarono a fiorire leggende, anche nere, sulla sua nascita. Quella più innocua narra che durante la costruzione del palazzo, trovarono un tesoro nascosto in quei terreni da chissà chi. Quella più dark è che i Catalano avessero assoldato un numero considerevole di briganti e mediante costoro taglieggiavano gli altri “signori” del paese e anche i massari più ricchi nonché la povera gente.
Nessuna delle due leggende è vera. I Catalano come tutti coloro che avevano qualcosa da perdere durante il tumultuoso periodo dell’Unità e la successiva guerra contadina, cercarono di barcamenarsi tra i legittimisti ed i liberali, anche se per onestà intellettuale bisogna dire che furono i primi a capire che non sarebbero tornati i Borbone, regolandosi di conseguenza, insomma furono “gattopardi” anche loro, ma forse meno degli altri
Molto probabile che dovettero anche foraggiare di nascosto i briganti di Caruso che terrorizzavano la zona, per averne protezione. Alcune famiglie di possidenti perdettero molto se non tutto con l’Unità. Vi sono episodi di storia sanbartolomeana su cui sarebbe giusto far luce, ma ciò lo lasciamo volentieri a chi avrà più capacità di noi.
Nel breve periodo post unitario la fortuna dei Catalano diventò enorme, tanto che gli emigranti sanbartolomeani che negli anni ’20 del secolo scorso andarono in America, per indicare una fortuna immensa solevano dire “Che sei figlio a Catalano?”. Eppure vivevano in quell’America che proprio in quel periodo esprimeva l’uomo più ricco del mondo, forse uno dei più ricchi di tutti i tempi quel John Davison Rockfeller che con la Standard Oil accumulò una fortuna tale che spaventò lo stesso Presidente degli Stati Uniti che tramite la Corte Suprema ordinò lo scorporamento della Compagnia. Per capire la ricchezza accumulata da Rockfeller bisogna immaginare di mettere insieme i patrimoni di Arnault, Bezos, Musk e Zuckerberg. Rockfeller avrebbe potuto comprare centomila Catalano, eppure per i nostri emigranti, il sinonimo di ricchezza era la famiglia che aveva il palazzo in via Pia.
Lionardo figlio di Michele sposò Laura Zenobia Crialese figlia di Maria Catalano, probabilmente una lontana parente e Bartolomeo farmacista che fu sindaco di San Bartolomeo nel periodo successivo all’Unità e per ben cinque anni.
Sotto Lionardo si completò la costruzione del Palazzo che si estende su una superficie di 1110 metri quadrati, 387 di deposito, 58 di cortile e 615 del palazzo.
Il deposito ha al piano terra la stalla, al primo piano i “silos” per stipare il grano. Il balcone senza balaustra serviva per caricare il grano sopra i carri.
Quando la ricchezza dei Catalano si accrebbe la famiglia decise di costruire sopra il deposito un belvedere, che tra l’altro affacciava proprio su via Belvedere, successivamente nominata Via Margherita di Savoia. Che sia successivo al deposito è desumibile dai materiali di costruzione, pietra per il deposito, mattoncino per il belvedere. Anche la torretta affrescata e con pavimento maiolicato fu costruita in quel periodo. La torretta non aveva alcuna funzione, ma era solo ornamentale.
Il Palazzo è disposto su tre livelli, nel piano seminterrato vi erano le cantine, il livello superiore ospita gli ambienti di servizio: tinello, cucina, soggiorno, uno studio e altre stanze destinate alla servitù. Alla servitù fu destinata anche la mansarda che affaccia su una terrazza più piccola.
Il livello superiore ospitava la sala della musica, le stanze della famiglia, la biblioteca, un grande salone e la cappella. I due livelli sono collegati da un grande scalone.
L’ascesa sociale dei Catalano non si bloccò con l’Unità d’Italia anzi se possibile raggiunse il suo zenith. Il figlio di Lionardo e Laura Angelo Maria, il famoso Don Lillo Catalano, sindaco di San Bartolomeo nel 1910, sposò il 13 gennaio 1893 Maria Luisa Nunziante, Avvocato, figlia di Antonio, Senatore del Regno d’Italia e Primo Presidente della Corte di Cassazione di Napoli. Tra i testimoni di nozze leggiamo i nomi di Nicola Falconi Deputato per 10 legislature e Senatore del Regno, nonché sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia, Leonardo Bianchi, l’insigne scienziato, nonché amico di famiglia, Carlo Padiglione l’illustre araldista genealogista.
Angelo e Maria Luisa ebbero un figlio Lionardo che morì poco dopo la nascita e tre figlie femmine: Maria Laura, Clotilde e Letizia.
Maria Laura era la nonna di Cristina Giuliani, colei che ci ha permesso di scrivere questo breve resoconto sulla famiglia e che non smetteremo mai di ringraziare.
Maria Laura sposò il Maggiore Nicoletti Altimari eroe di guerra e trasvolatore atlantico con Italo Balbo, ma questa è un’altra storia.
Un’ultima nota di curiosità, furono i Catalano a portare la prima auto a San Bartolomeo in Galdo. C’è una foto in rete, dove si vede un’auto con autista e passeggero. Il passeggero era Matteo Catalano, fratello celibe di Angelo, l’ultimo abitante stabile del palazzo.
La storia dei Catalano racchiude un arco temporale assai breve, almeno per quanto riguarda la sua parte sanbartolomeana, fuori da San Bartolomeo continua tuttora con i discendenti, eppure continua ad interessare i sanbartolomeani.
Buona lettura et ad Maiora Ariadeno
Ringraziamo: Cristina Giuliani per averci concesso l’accesso alla biblioteca familiare, ed all’arch. Erica Di Renzo per averci permesso di leggere la sua tesi di laura su Palazzo Catalano.
In copertina la foto degli ultimi due residenti il palazzo Catalano i Cavalieri Matteo, celibe e Angelo Maria padre di Laura, Letizia e Clotilde.