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giovedì, 28 Marzo 2024

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BRIGANTI NELLA VALFORTORE – Parte 2 –

 a cura di Paolo Angelo Furbesco

Leggi qui la parte 1

                         BRIGANTAGGIO FINO AL 1865

I briganti, sostenuti da papa Pio IX e dall’ex sovrano  borbonico Francesco II, conquistarono un largo consenso tra i contadini meridionali, che finirono a ingrossare le fila dei rivoltosi sia per ribellarsi all’inasprimento fiscale e alla perdita degli usi civili delle terre demaniali in seguito alla nascita del Regno d’Italia, sia per sottrarsi al servizio militare obbligatorio. Al  Sud c’erano banditi veri e criminali comuni prima, durante e dopo l’Unità. A questi delinquenti vennero equiparati «i briganti», ovvero i meridionali in lotta per scacciare «gli stranieri». Il termine fu esteso e  la ribellione di reazionari, contadini e clericali contro la Stato appena costituito, fu etichettata brigantaggio. Ciò che accadde nel 1861, sostiene Giordano Bruno Guerri nell’introduzione del suo Il sangue del Sud (Mondadori 2010, ndr), «realizzava il sogno secolare di poeti, politici e intellettuali. L’Italia “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”, invocata da Alessandro Manzoni, non era più un’astrazione. Si è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani, recitava la celebre sentenza di Massimo d’Azeglio, con retorica sufficiente a velare un’ intenzione che non c’era – almeno non in tutta la classe dirigente – e non ci sarebbe stata. Lo stesso d’Azeglio scrisse in una lettera privata: “La fusione coi Napoletani, mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso”». Due mondi erano in conflitto tra loro. Perché l’uno venisse a patti con l’altro, scrive Guerri, «occorreva che il vincitore riconoscesse le differenze e cercasse di cancellarle realizzando una maggiore giustizia sociale. Si preferì l’azione repressiva, determinata a stroncare, soffocare, estirpare. Una logica che aumentò se stessa: la violenza ne generò altra, sempre più crudele. Per gli uomini dei Savoia, i briganti erano l’emblema di quel figliastro malato e depresso, geneticamente tarato. Ma  non  basta l’approccio  razzistico  a spiegare l’atteggiamento tenuto nei suoi confronti, c’è dell’altro: potremmo chiamarla la sindrome  del “chi c’è la fatto fare?”. Si spiegano  così prima la spietatezza della repressione, poi l’adozione di una politica e sociale del tutto inadeguata ai problemi del Mezzogiorno; più tardi la perseveranza con cui quei problemi vennero liquidati come sintomi indelebili di arretratezza e di parassitismo».  «In realtà il brigantaggio – continua  Giordano Bruno Guerri – rappresentava il segnale d’allarme di un guasto grave, e non solo per l’ordine pubblico. Il modo in cui fu combattuto sviluppò quella che sarebbe diventata la delinquenza organizzata, e accrebbe a dismisura la gravità di una questione meridionale destinata a incancrenire la vita  politica del Paese perpetuando la contrapposizione Nord-Sud. I contadini saliti sui monti furono – con le sole armi che avevano a disposizione, la disobbedienza, il banditismo – i ribelli di una storia che li aveva ignorati, di un processo che aveva sancito la rimozione della loro cultura e della loro tradizione. Della loro visione elementare, arcaica e medievale, quanto si vuole, ma loro scelsero di farsi briganti, sfidando una morte quasi sicura. Furono la spina nel fianco del potere, almeno per cinque lunghissimi anni. Saranno sconfitti, ma grazie alla loro rivolta si rafforzò  la sensazione che la terra abitata da quel popolo sarebbe stata la palla al piede della nazione. “Ci avete voluti, imponendoci la vostra volontà: ora pagate le conseguenze”. Ecco cosa sembrava dire il Sud al conquistatore. Come ogni guerra civile, anche quella tra piemontesi e briganti, è stata raccontata dal vincitore. Che però, a differenza del solito, non ha potuto vantarsene: si preferì  nascondere o addirittura distruggere i documenti, perché non fossero accessibili neppure agli storici». «Anche chi aveva vinto – conclude Guerri – uscì da quella  tragica prova fratricida con un terribile bagaglio di dolori e sofferenze, ma non poté raccontare il proprio sacrificio e celebrarlo. Né tantomeno, ha potuto riconoscere quello degli sconfitti. Però il brigantaggio postunitario è stato, lungo il secolo e mezzo di storia nazionale, poco più di una parentesi della quale si sono perse le tracce, quasi un incubo da rimuovere  e censurare, una pagina vuota, una tragedia senza narrazione. I briganti scontano, oltre alla sconfitta, anche il destino della damnatio memoriae. A loro, non spetta l’onore delle armi».
Nota Bene Con la legge Pica il governo italiano impose lo stato d’assedio, annullò le garanzie, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri. Prevedeva  addirittura la fucilazione per chi venisse trovato in possesso di armi. Le bande erano composte in particolare da ex soldati borbonici, delinquenti evasi o scarcerati, poveri braccianti. Carmine Crocco, Cosimo Giordano, i fratelli Giona, il sergente Romano, Ninco Nanco, Giuseppe Schiavone, Giacomo Giorgi: sono i nomi di alcuni tra i principali briganti che imperversavano in quel periodo, commettendo i più efferati ed illeciti atti. Fra tutte queste bande  merita una particolare attenzione quella capeggiata da Carmine Crocco. Ecco un suo breve profilo.   

                  IL BRIGANTE PIÙ TEMUTO DELL’OTTOCENTO 

Di questo bandito-brigante molto si è scritto, per cui ci limiteremo ai dati a nostro parere essenziali, senza intenti polemici. Capo leggendario del brigantaggio lucano post-unitario, conosciuto come Generalissimo e Napoleone, molti storici hanno definito Carmine Crocco,  il più temuto brigante dell’Ottocento;  nacque nel 1830  in quel di Rionero in Volture (a quei tempi sotto il regno delle Due Sicilie), oggi in provincia di Potenza. Nel 1849, all’età di 19 anni, non avendo abbastanza denaro per evitare il servizio di leva (a quei tempi si poteva pagare per saltare la leva), andò soldato e prestò servizio nell’esercito borbonico prima a Palermo e poi a Gaeta. Carattere forte e ribelle, non ancora ventitreenne (nel 1852), disertò e, tornato dalle sue parti da semplice criminale comune, si diede alla macchia  rifugiandosi nei pressi del bosco Forenza, a circa 15 chilometri dal suo paese natale. Era una  zona in cui  era facile incrociare  altre persone con guai giudiziari, e qui Crocco iniziò ad avere i primi  contatti con altri fuggitivi. Costituì la sua prima banda armata, vivendo alla giornata tra furti e rapine. Dopo circa tre anni  (nell’ottobre1855, all’età di  25 anni), venne arrestato e  condannato a 19 anni di reclusione. Fu rinchiuso nel carcere di Brindisi, ma nel dicembre 1859 riuscì ad evadere, rifugiandosi – questa volta da esperto brigante – tra i boschi di Monticchio e  di Lagopesole, «luoghi straordinari d’accesso nell’invisibile». In tale periodo ebbe contatti con un certo Camillo Boldoni – un esponente del comitato insurrezionale lucano –  che lo convinse ad  aderire ai moti liberali del 1860, con il miraggio che tutti i fuoriusciti dell’esercito borbonico – banditi e non – in caso di vittoria avrebbero avuto il condono per i reati  precedentemente commessi. Per tale motivo, accettò di far parte dell’esercito garibaldino, combattendo con il grado di caporale fino all’ingresso trionfale delle truppe  a Napoli il 7 settembre 1860, dopodiché venne  rispedito  al suo paese. Tornato a casa vittorioso e baldanzoso «cinto dal tricolore», fiducioso di poter ottenere quanto gli era stato promesso, si recò a Potenza dal governatore Giacinto Albino, ma invece dell’amnistia  trovò nuovamente  il carcere. Amara fu la sua delusione! Da semplice fuorilegge – disinteressato a questioni politiche – nel carcere  fu avvicinato da esponenti borbonici che, con lo scopo di riportare sul trono lo spodestato Francesco II, lo convissero a mettersi al loro servizio ricevendo in cambio armi, denaro e altri  appoggi. Poco dopo, misteriosamente riuscì a  fuggire. Nelle sue  memorie  ebbe ad affermare: « A molti potrà apparire strano come la mia banda, così numerosa e formidabile, abbia potuto spadroneggiare dal 1861 al 1864 e che, nonostante  l’accanito inseguimento della truppa, abbia potuto attraversare incolume il territorio che separa la Basilicata da Roma…». È un implicito riferimento ai rapporti fra i galantuomini e briganti. Fuggito  dal carcere con l’aiuto dei borbonici, dal 1861 iniziò  la sua storica galoppata. Capo indiscusso di 43 bande con più di 2.500 uomini, operò  nella zona del Volture, principalmente nei boschi che circondavano i laghi di Monticchio, senza che nessun  generale piemontese riuscisse a batterlo. Il suo esercito annoverava  luogotenenti del calibro di: Giuseppe Schiavone alias Sparviero,  Giuseppe Caruso alias Zi Beppe, Giuseppe Teodoro alias Caporal Teodoro, Giuseppe Nicola Summa alias Ninco Nanco, Vito di Gianni alias  Totaro, Giovanni Fortunato alias Coppa, il generale catalano Josè Borjes, e altri ancora. La sua carriera di bandito-brigante durò circa tre anni: molti furono gli episodi di saccheggio compiuti, oltre a omicidi e varie stragi. Come sottolineano  gli  storici,  «le immagini che risaltano agli occhi sono quelle di una violenza che non conosce confini». Arrestato nel 1864 a Veroli, località nei pressi di Frosinone, fu subito trasferito nelle carceri di Roma, sede dello Stato Pontificio, con l’accusa di essere stato il responsabile della morte del generale catalano Borjes; vi rimase  per circa tre anni. Fu poi spedito nel penitenziario  di Civitavecchia e  successivamente nelle prigioni di Parigi, Paliano, Avellino, fino ad approdare infine in quel di Potenza. I  suoi trasferimenti, causa la grande fama che lo circondava in quei momenti, suscitò la curiosità di tante persone, che accorrevano  al suo passaggio. Processato dalla Gran Corte Criminale di Potenza, dopo tre mesi di dibattito, l’11 settembre 1872 fu condannato alla pena di morte (tramutata nel 1875 in carcere a vita); fu trasferito prima nelle carceri di Santo Stefano poi a Portoferraio, dove spirò nel 1895. Sapeva leggere e scrivere (una rarità a quei tempi) e durante la lunga detenzione – durata ben 33 anni – si cimentò  in  diversi manoscritti. Quello più noto, dal titolo Il brigante Carmine Donatelli Crocco, scritto con l’ausilio del capitano del regio esercito Eugenio Massa, fu pubblicato nel 1903 a Melfi. Nel 1927 Benedetto Croce giudicò le  memorie «bugiarde», mentre Indro Montanelli, in Nell’Italia dei notabili del 1973, scrisse che si trattava  di un componimento «viziato dall’enfasi  e dalle reticenze, ma non privo di spunti descrittivamente efficaci sulla vita dei briganti, e abbastanza sincera». Considerato a suo tempo un ladro e un assassino, a partire dalla seconda metà del Novecento iniziò a essere rivalutato come eroe popolare. La sua figura rimane ancora oggi controversa. A nostro modo di vedere, un’analisi obiettiva delle sue azioni e delle sue parole lo qualificano come un vero criminale, un delinquente di professione.  Degno erede dei famosissimi briganti del meridione che lo precedettero, il suo comportamento criminale  nei confronti della popolazione civile non ebbe limiti, macchiandosi di gravi atti di violenza: assassini, sequestri di persone, estorsioni, stupri, oltre a furti e rapine. Scrive Pino Aprile, nel  libro Terroni  (Piemme 2010): «Sanguigno, carnale, irruente, forte e ben piantato, con i tratti grossi del cafone vero: intelligenza pronta intuitiva che si traduceva subito in azione, non temeraria, ragionata (pure troppo, forse se avesse condotto l’ultimo assalto a una ormai vacillante Potenza e insediato il governo borbonico, la storia avrebbe preso un’altra direzione). Geloso della sua primazia, fece fallire la missione del generale lealista Jorge Borjes, inviato dai fuoriusciti borbonici a guidare la resistenza, con un ruolo superiore al suo, un grandissimo, carismatico  trascinatore».

A completamento della sua biografia, alcune pillole di storia:

  • In alcuni scritti viene citato anche come Donatello o Donatelli; a dire di Basilide Del Zio, è il nome che apparteneva al nonno paterno, Donato Crocco.
  • Soltanto il tradimento di un suo compagno d’armi (Giuseppe Caruso) determinò la sua sconfitta, costringendolo a riparare nello Stato pontificio.
  • Ecco alcune sue affermazioni:
    «Ma era scritto ch’io non avessi pace mai; mia madre mi aveva profetizzato serpente, ed io da rettile velenoso dovevo avvelenare il mio paese, la mia bella regione e rendermi celebre per atti briganteschi ».
    «Il brigante è come la serpe, se non la stuzzichi non ti morde».
    «Molti di coloro che avevano  gridato viva Francesco II, all’arrivo delle truppe piemontesi  gridarono viva Vittorio, viva Cialdini e passeranno per liberali come furono da noi creduti dei reazionari  Era più infelice di me,  perché soffriva  insulti e maltrattamenti nel suo palazzo peggio di me. Vigilato e sorvegliato da tre polizie, la papale, la francese e quella del comitato liberale».
    «Napoleone I era figlio di un povero cancelliere, eppure macellando milioni di uomini, compreso mio zio Martino, arrivò ad essere un grand’ uomo, ma finalmente, per aver voluto troppo,  perdé tutto, e, come me finì la vita prigioniero,  lui a S. Elena  guardato a vista dai soldati inglesi, io nel bagno di S. Stefano, sotto la rigida sorveglianza  delle sentinelle dell’esercito italiano».

«Giuseppe Garibaldi era un uomo audace. Quello che ha fatto Garibaldi io l’ho tutto qui nel cervello e lo ricordo minutamente».
«Fu qui, nell’ottobre del 1861, ch’io conobbi  il Borjes generale spagnolo venuto per ordine di Francesco II a tentare di sollevare i popoli delle Due Sicilie. Quell’uomo forestiero che veniva da noi per arruolare proseliti e reclamava in conseguenza l’ausilio della mia banda, destò sin dal primo momento nell’animo mio una forte antipatia poiché compresi subito che a petto suo dovevo spogliarmi del grado di generale comandante della mia banda, per indossare quello di sottoposto. Egli, un povero illuso venuto dal suo lontano paese per assumere il comando di un’armata, aveva creduto di trovar ovunque popoli  insorti, e dopo un primo colossale fiasco dalla Calabria alla Basilicata, voleva convincere me ed i miei che non sarebbe stato difficile provocare una vera insurrezione, dato il numero della mia banda, l’ottimo elemento che la costruiva,  le buone armi e gli eccellenti  cavalli». (Fu fucilato a Tagliacozzo, in provincia dell’Aquila,  l’8 dicembre 1861, ndr).
«Il pretesto è bello, la Patria, la Legge, la prima è una puttana, la seconda peggio ancora. E Patria e Legge hanno diritti e non doveri e vogliono il sangue dei figli della miseria. Ma vi è forse una legge uguale per tutti? Non dirmi ciò, non parlare di questo gigante mostruoso, poiché conosco che la legge leale non è mai esistita, né esisterà per tanto che Iddio non ci sterminerà tutti».

  • Il 15 febbraio 1864 fu istituito un premio di 20mila lire per la sua cattura. (15mila lire per quella di Giuseppe Nicola Summa Ninco-Nanco e 12mila lire per quella di Angelantonio Masini).
  • Fu condannato alla pena di morte per aver commesso 67 omicidi, 7 tentati omicidi, 4 attentati all’ordine pubblico, 20 estorsioni, 15 incendi di case. Fece scandalo la trasformazione di tale pena a carcere a vita. Visse fino al 1905, dopo 33 anni dalla sua condanna.
  • L’attore e regista Michele Placido è un suo discendente da parte del padre.

    ANNO 1860 – FINE DELLA DINASTIA DEI BORBONI                            

Con la spedizione dei Mille di Garibaldi e le battaglie di Calatafimi, di Milazzo e del Volturno, poteva dirsi conclusa la liberazione del Regno delle Due Sicilie, agevolata anche dall’ammutinamento della marina borbonica, dalla benevolenza di alcuni generali di stanza in Sicilia, dalla diplomazia inglese, dal consenso dei liberali, della borghesia e perfino dalla…camorra. Arrivato a Benevento, finalmente liberata dal dominio pontificio, il 25 ottobre Garibaldi con apposito decreto istituisce l’omonima provincia: l’antico Ducato di Benevento diventa  provincia del  Regno. Con l’intervento successivo di Vittorio Emanuele II e i plebisciti dell’autunno, l’ex Regno viene annesso al Piemonte.  Con la resa di Gaeta (in cui si era rinchiuso l’ultimo re di Napoli, Francesco II) ebbe praticamente fine nell’Italia meridionale la dinastia dei Borboni, iniziata dal 1734…E fu l’Unità d’Italia! 

                               ANNO 1861 – L’UNITA’ D’ITALIA 

Il 17 gennaio 1861, il già menzionato decreto di Garibaldi sull’istituzione della provincia di Benevento, venne ratificato da quello del principe Eugenio di Savoia, Luogotenente Generale delle province napoletane, su proposta del Consigliere del Dicastero dell’Interno Liborio Romano. Benevento diventa la più giovane provincia dello Stato italiano: prende il nome di Sannio e assume a simbolo lo  stemma sannitico (il toro della sacra primavera nello scudo coronato di foglie e bacche di quercia). Viene divisa in tre distretti: Benevento, Cerreto e San Bartolomeo in Galdo (con i mandamenti di Baselice, Castelfranco, Colle, Santa Croce di Morcone, San Giorgio la Molare). Oltre che circondario, San Bartolomeo è mandamento a sé stante.
È doveroso precisare che in origine, nell’elenco  dei Comuni facenti parte della nuova provincia (presentato da Carlo Torre al Consiglio di Luogotenenza il 24 novembre 1860), San Bartolomeo, non era incluso.  Questo avvenne soltanto  dopo varie proteste e petizioni. Ecco un passaggio di Antonio Mellusi: «Imploravano che quel municipio venisse separato dalla provincia di Capitanata, cui apparteneva, e fosse aggregata all’altra di Benevento» (dall’Origine della provincia di Benevento, 1911, pag.113).
La nascita del Regno d’Italia aveva destato grandi speranze. Nessuno dubitava che le aspirazioni dei suoi artefici si sarebbero realizzate. Invece, nel giro di pochi anni, la realtà si incaricò di smentire anche i più ottimisti; per l’area del Fortore, per usare le parole di Gianni (Giovannino) Vergineo, è «come un fuoco di paglia perché dà solo l’illusione della luce e del calore, ma lascia un pugno di cenere».
Dopo l’Unità,  l’Italia  si trovò a fare i conti con un Paese in cui le condizioni economiche e sociali del Nord e del Sud erano profondamente diverse. La crisi agricola, che nel Meridione si fece sentire più che altrove, sottolineò ancor di più le differenze. Tasse e prezzi dei beni di prima necessità aumentarono sensibilmente.
La miseria si diffuse, così come le malattie che essa causava  (malaria e pellagra, soprattutto) e la ribellione prese la forma di brigantaggio, per anni duramente combattuto dal governo.
Nel corso del XIX secolo, gli ex principi e baroni, trasformatisi in borghesi benestanti, sono ancora quelli che mescolati ai galantuomini – la nuova classe emergente – si accaparrano i terreni migliori, a discapito dei poveri contadini, che continuano a  essere sfruttati e che, in molti casi, si vedranno costretti a prendere la via dell’emigrazione.
In merito, ecco il pensiero del nostro amato compaesano Gianni  (Giovannino)Vergineo tratto, credo,  dal suo ultimo saggio, San Bartolomeo in Galdo, dalla libertà feudale alla libertà moderna – Benevento  24 Dicembre 2002 –  (a pochi mesi della sua dipartita avvenuta il 21 giugno 2003, ndr): « Capitolo IX – L’unità coatta – Nell’elenco dei Comuni indicati  dal Governatore di Benevento, Carlo Torre, San Bartolomeo, posto sulla sponda pugliese del Fortore, è assente. Ma il paese arde dal desiderio di cambiamento. E si mobilita per passare dalla Capitanata alla Provincia in via di formazione. A chi giova? Non si sa. È forse la cupido rerum novarum  che muove la gente; più forte di ogni proposito razionale. Tutti ne sono presi: decurionato e notabilato, laicato e clero, popoli e maggiorenti. Tutti invocano l’ingresso nell’organismo in gestione, che può nascere solo col sacrificio di province già esistenti da secoli: Capitanata e Molise, Principato Ultra e Terra di Lavoro. Alla fine ci riescono. Il paese figura anche come capoluogo del terzo circondario, dopo Benevento e Cerreto. Nel primo Consiglio provinciale risulta rappresentato dal Barone Martini. E resta capoluogo del circondario sino all’abolizione delle Sottoprefetture (1927), malgrado la rivalità di Colle, appoggiata della maggioranza del Consiglio, per la posizione marginale del centro fortorino, carente di strade e mezzi di accesso. Ma la realtà resta, salvo il cambio della guardia e l’effetto ristrutturante di uffici e servizi nazionali. I nodi secolari tornano al pettine e il pettine si rompe. A parte la guerra contadina e la questione romana, si rompono anche  certi equilibri sociali ed economici di tipo tradizionale. […] Comunque sia, il cambiamento esprime l’ideologia della classe dirigente, che ricopre la sua origine sannitica specificamente Frentana e si definisce in un circolo signorile esclusivo, detto appunto Circolo Frentano, come per una pulsione d’orgoglio del ceppo antico. La falsa coscienza che rovescia la realtà del dominio nel mito di civilizzazione della classe dominata, finisce col gettare sulla base produttiva anche il peso dei doveri etnico-nazionali. Doveri senza diritti. Ciò che accade  dopo l’Unità ha, perciò, il senso di una necessità storica. Tutto si gioca ai limiti estremi.
Il brigantaggio è l’esito della disperazione estrema del mondo contadino; la questione romana, il portato della involuzione reazionaria del mondo clericale; l’emigrazione clandestina, lo sbocco fatale del  contadiname  superstite alle stragi del regno d’Italia verso un destino ignoto. Nel 1860 due mondi si scontrano. L’uno maledice l’altro: nord e sud, industria e agricoltura, ragione e tradizione, diritto e consuetudine, padronato e proletariato. Dissidio antico, ma inasprito dall’Unità coatta. Bella forma, ma vuota. L’unità di facciata copre e opprime una pluralità  inquieta e indocile di bisogni insoddisfatti e di promesse tradite. Passa la Destra storica; passa la Sinistra costituzionale;  passa la prima guerra mondiale; passa il fascismo. Ma il dualismo delle due Italie non passa. E non si solo una contraddizione tra Settentrione e Mezzogiorno d’Italia, ma è anche un conflitto doloroso tra il sud e il sud. I motivi di conflitto li abbiamo in casa. E sono, da una parte il blocco agrario, con la sua corona di parlamentari, amministratori, giudici, notai, avvocati, professionisti di vario genere, intellettuali di varie estrazioni; e, dall’altra, le comunità sociali chiuse in un familismo disperato pauroso e diffidente di una società civile indisponibile alle sue istanze: in alto la classe dominante; in basso la classe dominata, pur nelle varietà delle loro rispettive articolazioni. Non c’è più la comune fede a contenere il dualismo di una dimensione unitaria. La classe dominante l’ha perduta; quella dominata l’ha ridotta a bandiera di sanfedismo. Tra le due dimensioni sociali non c’è più osmosi. La religione non svolge più una funzione unitaria. Ciascuna si impoverisce nella sua separatezza, avvitandosi e inaridendosi in se stessa. La frattura è sanguinante: in alto regna l’ateismo; in basso la superstizione. In ogni caso abbiamo due livelli separati, ciascuno vive chiuso nella sua logica legato al suo mondo».

BRIGANTAGGIO IN VALFORTORE
Gli storici  ci raccontano  che il movimento eversivo ebbe inizio in Basilicata nell’aprile del 1861, e che nell’estate si estese velocemente a macchia d’olio nell’Irpinia, nel Sannio, nel Molise, nell’Abruzzo, nella Puglia, nella Capitanata e nella Terra del Lavoro.
Per  quel che ci riguarda: a dire dello storico Antonio  De Lucia,  il  Sannio visse almeno 5 anni di fuoco, con un numero altissimo  di comuni coinvolti in scontri e violenze. Come sottolinea il professore baselicese Fiorangelo Morrone, «le prime voi sui banditi cominciarono a diffondersi in Valfortore nel maggio del 1861».Nel Beneventano si sollevarono Molinara, San Marco dei Cavoti, Pietrelcina,  Colle Sannita e altri centri. A differenza di questi paesi, San Bartolomeo in Galdo fu appena sfiorato dal brigantaggio: essendo presidiato dal Iº battaglione del 62esimo fanteria agli ordini del maggiore Carlo Gorini, era considerato alla stregua di un  bunker. Quasi tutti i briganti scelsero di  girare alla larga. In questo periodo si registrano  diversi  massacri; mi soffermerò principalmente su quello già citato precedentemente nell’antefatto (Pontelandolo-Casalduni), una delle pagine più vergognose della storia unitaria: «Un  autentico tuffo nell’orrore». Molto si è scritto in merito a questo episodio, ma la verità – in speciale modo sul numero dei morti – rimane avvolta dai dubbi. Ci limiteremo alla cronaca per uno stringato riassunto dei fatti accaduti.  

                    La strage di Pontelandolfo e Casalduni
Cosa accadde davvero in questi due paesi beneventani nel lontano 1861? Non vi nascondiamo –malgrado la nostra età – che eravamo all’oscuro di questo macabro episodio, e che per ricostruire l’accaduto abbiamo consultato libri, articoli di quotidiani, siti internet. Lo studio di tutto questo materiale (e, in speciale modo, la lettura del terzo capitolo La strage del best-seller Terroni di Pino Aprile, già citato in precedenza) ha scatenato la voglia di approfondire e diffondere la conoscenza di questi tragici fatti. Alzi la mano chi era al corrente di questa tragedia prima del 2010, quando Pino Aprile ha riproposto l’episodio all’attenzione del grande pubblico. E pensare che prima di tale data esistevano diverse pubblicazioni e scritti in merito (vedi in primis Giacinto de Sivio, a seguire la relazione del testimone oculare Saverio Golino, la lettera di Carolina Lombardi in Tedeschi del 3 settembre 1861, i testi di Franco Maltese, Ferdinando Melchiorre Pulzella, Gigi Di Fiore, Davide Fernando Pannella…). Eccoci dunque – a completamento di quanto già  affermato precedentemente –  da modesto, ma  cavilloso narratore, pronto a cimentarci in un analisi il più possibile  obiettiva e priva di  intenti polemici o politici dei fatti, tornando a tre giornate fondamentali:  7, 11 e 14 agosto 1861.
Nota Bene La possibilità offerta dal Web di accedere in modo istantaneo a un mare infinito di dati e nozioni ci fa spesso dimenticare che su internet circola molta disinformazione. Crediamo  di essere informati a dovere, ma capita che non sia  così. Oltre al tema della “fake news” o  “bufale”, c’è poi la dibattuta questione sulle conseguenze più profonde dell’utilizzo della Rete, che alla lunga condizionerebbe in modo negativo le nostre facoltà di selezionare, valutare e approfondire in modo dovuto gli argomenti  di cui ci interessiamo. Storie false e storie non trattate con il dovuto rispetto: un tema che dovrebbe mettere tutti in allarme, studiosi compresi, e farci molto meditare …
7 agosto 1861 – Presa di Pontelandolfo Il brigante cerretese Cosimo Giordano, alias Fra Diavolo, ex sergente borbonico, durante la processione in onore di san Donato (patrono con sant’Antonio da Padova) al grido di «Viva Francesco II» occupa con 30 banditi il paese. Accolto festosamente da quasi tutti i suoi abitanti, espose sul palazzo del Comune la bandiera borbonica, nominando altresì un governo provvisorio. E fin qui, quasi tutti gli storici sono d’accordo…
11 agosto 1861 – Massacro di 45 militari Per ripristinare l’ordine pubblico, il  Tenente Generale del Regio Esercito Maurizio Gerbaix de Sonnaz (1816-1892) invia a Pontelanfolfo il luogotenente Cesare Augusto Bracci, al comando dell’undicesima compagnia del 36º fanteria, composta da 44 soldati (40 bersaglieri e 4 Carabinieri). E anche qui tutti d’accordo. Ma quale fu l’epilogo di questa triste giornata? Quale fu la fine di questi  militari? In merito, trascriviamo la relazione del testimone oculare Saverio Colino, rilasciata, il 18 settembre 1861 in qualità di unico amministratore di Pontelandolfo  (vedi  Archivio di Stato, Napoli, Alta Polizia, fascio 180, ndr): «Il giorno 11 arriva a Pontelandolfo un distaccamento di soldati italiani al numero di 45 capitanati da un ufficiale. Si insinuavano nel paese, con bandiera bianca in segno di pace e senza veruna resistenza. Uno di essi restò dietro per il bisogno e fu ammazzato d’un colpo d’arma da fuoco…Stanchi del viaggio e del digiuno si provvedevano dei viveri che furono subito somministrati per opera mia…Accortisi i soldati di un prossimo attacco e fatti da me avvertire del comune pericolo, cercarono in mia compagnia e di mio figlio Paolo Antonio di occupare la torre dei Sign. Perugini, antico e forte castello adatto a qualunque difesa, ma non vi stettero che pochi minuti e pensarono miglior partito d’uscire allo scoperto e ritirarsi in S. Lupo. Così fecero … Un gran numero di contadini uniti ad altro grosso di briganti di diversi paesi e specialmente di  Casalduni, discesi dalla montagna inseguivano quei pochi prodi sostenendosi così d’ambo le parti accanito combattimento…In prossimità della consolare, incontrarono un agguato preparato contro di essi, da molti briganti, collettizi, (sic) di diversi paesi, sinché furono obbligati, dirigere per Casalduni… ed il popolo  tutto  riunito   come un sol uomo, attaccò di fronte quegli infelici eroi e li inutilizzò alla difesa. Assaliti da tutti i lati, costretti a deporre le armi, furono trascinati in Casalduni e rinchiusi nel Corpo di Guardia per decidere del loro destino… un certo Angelo, fratelli, figli, nipoti Pica casaldunesi reazionari per eccellenza, influenti e forti delle loro agiatezze ed aderenze vollero a forza che fossero morti, e così vennero barbaramente dai briganti nella piazza di Casalduni fucilati. Dei 45 militari “atterrati a colpi di schioppo, di scure, di falce, di zappelle e di pietre”, 5 soli erano caduti  in combattimento e due si salvarono: un sergente ed un soldato che scampato a Campobasso poté raccontare che la truppa a Pontelandolfo s’avveniva in un agguato che per due volte caricava alla baionetta, che l’ufficiale rimaneva ferito e doveva essere trasportato dai suoi a Casalduni, dove la popolazione suonava a storno e li dilaniava con indicibile rabbia». Nota Bene In merito a quanto appena riportato (ripeto: dall’unico testimone oculare degli eventi), ecco il commento del nostro esimio compaesano  Gianni (Giovannino) Vergineo, prestigiosa figura di storico sannita, tratto da Il Sannio brigante (Ricolo Editore, 1991, Benevento):  «L’onesto Golino, unico notabile rimasto a fronteggiare il pericolo tanto più imparziale, quanto più vicino alla parte liberale. Da questa fonte forse deriva la versione più attendibile dei fatti che poi si restringe o dilata a seconda di interpretazioni più o meno ideologicamente faziose nei corpi umani». All’uopo è doveroso specificare che il vecchio sindaco Lorenzo Melchiorre era fuggito il 5 agosto 1861, insieme al decurione Antonio Sforza, e precedentemente anche il Delegato di P.S. Vincenzo Coppola si era allontanato,  per cui la cittadina rimase “senza forze né morale né fisica”, solo con la presenza del nuovo amministratore appunto il Golino. Due anni dopo, nell’ottobre 1863 Giacinto de Sivio (1814-1867) pubblica  il primo dei cinque volumi de La storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861. Nell’anteprima, tra le altre cose, scrisse: «Io libero da odio e da amicizie, narrerò imparziale, con animo franco da paure e da speranze;  anzi con ferma speranza di non aver paura. Che se mio malgrado erri per ignoranza o debolezza, non ne vada tutta la colpa alla peccabile natura umana, ma anche alla presunzione di chi osando levarsi a giudicare de’ suoi tempi, ha mestieri esso stesso di giudizio e di condanna». Nel 1867 fu pubblicato il quinto volume dell’ opera, edito in Viterbo. Nel capitolo 17,  Strage dei piemontesi, il tragico avvenimento viene descritto in questo modo: «L’11 agosto 1861 giunsero da Campobasso a Pontelandolfo quarant’uomini del 36º di linea; con un tenente Bracci e quattro carabinieri. Uno spedato fu tosto ucciso da popolani a legnate; gli altri spaventati, avute munizioni dal vicesindaco, serrasonsi (sic) nella torre ex baronale posta in alto, donde potevano far difesa; ma come assaliti le palle entravano dentro, il tenente volle uscire. Investiti a furor di popolo piegano a S. Lupo; e trovano sbarrata la via da’ Napolitani (sic) sbandati con a capo un Angelo Pica. Stando tra due fuochi, prima ne cadde uno, ucciso da una donna con un sasso in fronte; cinque perirono per moschettate; gli altri rabbiosi accopparono per vendetta il loro tenente  ch’aveali (sic) cavati dalla torre; poi fu facile preda de’ Napolitani (sic); che menaronli (sic) disarmati a Casalduni tutti, fuorché un sergente rimasto celato da una fratta. Il popolo gridava Morte agli scomunicati!… Il Pica comandante tutta la gente volga salvare i prigionieri; e a sera, visto Casalduni stare in valle, disadatta a difesa, volgeva a Pontelandolfo; quando udendo soldatesche da S. Lupo retrocesse al Largo Spinelle (o Spinella, ndr). Preparandosi a zuffa imminente, temé i prigionieri l’impacciassero; …tutti e trentasette li fucilò. Indi per la scorciatoia a Pontelandolfo si ridusse. La plebe finì quei moribondi e pure v’accorse qualche sacerdote a confortarne l’agonia ». Nota Bene Alla luce di queste due differenti testimonianze d’epoca (Bracci ferito nei pressi di Pontelandolfo, trasportato dai suoi in Casalduni e ivi ucciso dai briganti; il  Bracci ucciso dai suoi in quel di Pontelandolfo), segnaliamo ora altri scritti, in ordine cronologico di pubblicazione.
Partiamo dal 1975 In merito all’ufficiale Bracci, il volume  Brigantaggio Provincia di Benevento ( Ed. De Martino) di Luisa Sangiuolo ci racconta:  «… A mezzogiorno arriva in vista del paese (Pontelandolfo, ndr) inalberando una bandiera bianca in segno di pace; uno dei suoi uomini attardandosi in contrada Colli è ucciso da un colpo di arma da fuoco…Al ponte Lende, vede scendere dalle contrade Minicariello e Cerquelli i contadini armati, mentre sopraggiunge da San Lupo il capobrigante di Casalduni Angelo Pica. Due soli soldati si salvano nascondendosi nei cespugli,  cinque cadono in combattimento, agli altri componenti del drappello è preclusa ogni via di scampo; vengono fatti prigionieri, ivi compreso il luogotenente Bracci ferito, sono portati a Casalduni…  Alle 22,30 si decide di uccidere i piemontesi; essi cadono sotto i colpi di schioppo, di scure, di falce, di zappelle, di pietre. Nicola De Angelis verso le ore 24, con una grossa mazza finisce di uccidere altri sei piemontesi semivivi».
Siamo nel 1996 Antonio Ciano, I Savoia e il massacro del Sud, (Addictions- Magene, Roma): « Arrivati a Pontelandolfo, i militari piemontesi scavalcarono il muro di cinta della torre medioevale e si accamparono nel giardino … Dalla piazza i contadini sparavano contro la torre, i piemontesi rispondevano al fuoco mentre abbandonarono quel posto sicuro…Presso Casalduni, s’erano sdraiati  per terra. Erano stanchissimi, da ventiquattro ore praticamente  stavano marciando senza riposo… vennero sorpresi dal sergente borbonico Angelo Pica, a capo di una trentina di soldati sbandati…cominciò una sparatoria tremenda  e i partigiani di Pica accopparono due militi piemontesi. Dopo questo episodio un subalterno  si rivolse al tenente Bracci, insultandolo… dal fucile del milite partirono due colpi: il cuore del tenente Bracci fu spappolato . L’ufficiale livornese morì all’istante … si arresero tutti… i trentasette militari furono fucilati tutti. Erano le 22,20. La fucilazione avvenne in Largo Spinella (o Spinelle, ndr) …furono spogliati delle divise e portati alla morte come delinquenti comuni».
Eccoci al 2000 Giovanni De Matteo, l’autore di  Brigantaggio e Risorgimento (editore Alfredo Guida, Napoli) ci riferisce: « Gaetano (ma dovrebbe essere Pier Eleonoro, ndr) Negri luogotenente colonnello, dette ordine a Augusto Bracci di fare una ricognizione a Pontelandolfo. Il drappello di Bracci si avvicinava al paese quando da folti cespugli partì un colpo; morì un primo soldato, briganti e contadini uscirono allo scoperto. Bracci tentò di far riparare i suoi soldati nella torre. Fu un massacro di quarantacinque soldati. Bracci già cadavere, fu decapitato e la sua testa portata in giro. L’odio per quei “piemontesi” venuti in casa loro a dettar legge ed imporre ordini non fu più trattenuto».
Anno 2007 Gigi (Luigi, ndr) Di Fiore (nato a Napoli nel  1960) Controstoria dell’Unità d’Italia: fatti e misfatti del Risorgimento (Rizzoli, Milano): «Il governatore di Campobasso Giuseppe Belli, allarmato più degli altri, per fermare i briganti diretti in Molise spedì a Sepino una colonna di soldati, chiedendo aiuto al generale Onorato Rey de Villarey, della zona militare di Caserta in quei giorni a Isernia… L’11 agosto partì da Campobasso l’11ª compagnia del 36º fanteria al comando  del tenente livornese Cesare Augusto Bracci…l’ordine ricevuto diceva di evitare l’ingresso nei centri abitati, considerati  pericolosi. Doveva eventualmente fermare solo qualche soldato «sbandato»…Verso Pontelandolfo … un paio uomini della colonna, isolati, vennero aggrediti e uccisi. Poi ci fu uno scontro con la gente che si riuniva. I soldati furono costretti a rifugiarsi nella torre medievale ancora visibile in piazza  del Tiglio. Ma la situazione si faceva difficile; decisero una sortita per cercare di fuggire verso San Lupo. Vennero bloccati tra due fuochi: da Casalduni arrivava altra folla inferocita, guidata dal capobrigante Angelo Pica. Alcuni soldati morirono negli scontri, altri furono finiti nell’area a ridosso di Casalduni, non lontano dall’attuale campo di calcio. Li massacrarono con colpi di schioppo, scuri, falci, zappelle e pietre. Poi fecero scempio dei cadaveri con delle mazze o passarono sopra i corpi in fin di vita coi cavalli. Si salvarono solo in tre… Morirono oltre al tenente Bracci, 4 caporali, 7 soldati scelti, 25 soldati, 4 brigadieri reali. In totale 41 morti. Il tenente Bracci, all’inizio solo ferito, fu massacrato da alcune donne armate di pietre».
Eccoci finalmente alla conclusione con Marco Vigna che, nel marzo 2014, attraverso il mensile Nuovo Monitore Napoletano diretto da Antonella Orefici, ci racconta quanto segue. L’11 agosto 1861 giunse a Pontelandolfo il luogotenente Augusto Bracci alla testa di 40 bersaglieri del 36º reparto, con il rinforzo di 4 carabinieri. Entrati in paese  senza aver compiuto alcun gesto ostile, anzi inalberando una bandiera bianca in segno di pace e cercando solo di acquistare viveri, furono assaliti da briganti e da alcuni cittadini: «I soldati, dinanzi ad un numero soverchiante di nemici, ripiegarono, prima all’interno di una torre medievale, poi cercarono scampo in direzione di Casalduni. Durante tale ritirata finirono però in un’imboscata e, serrati da ogni direzione da forze preponderanti, s’arresero.  Cinque erano caduti in combattimento, un sesto era stato ucciso in precedenza, due erano riusciti improvvisamente a nascondersi. Nonostante avessero alzata bandiera bianca, i militari superstiti furono tutti trucidati, tranne un sergente che venne risparmiato perché aveva promesso che non avrebbe più combattuto contro Francesco II. Il tenente Bracci fu torturato per circa otto ore, prima di venire ucciso a colpi di pietra. La testa gli fu tagliata e venne infilzata su d’una croce, posta nella chiesa di Pontelandolfo. Una sorte analoga toccò a tutto il suo reparto, i cui soldati furono uccisi a colpi di scure, di mazza, dilaniati dagli zoccoli di cavalli ecc. Sei militari, già gravemente feriti, furono massacrati a colpi di mazza. Un cocchiere si segnalò per il suo comportamento, facendo passare e ripassare dei cavalli al galoppo sopra i corpi dei soldati, alcuni moribondi, altri solo feriti ma impossibilitati a muoversi perché legati». Potremmo citare  altri scritti, ma ci sembra superfluo, considerata la molteplicità   delle fonti su questo tragico giorno,  i cui fatti (in particolar modo, la fine del povero tenente Bracci) vengono raccontati in modo diverso soltanto per motivi politici.  Si potrà mai sapere qual è  la “vera” verità? Ovvero, come fu ucciso? Veniamo all’ultimo giorno di questo tragico trittico.

14 agosto 1861, scatta la rappresaglia. Un triste giorno per il Risorgimento italiano.
«Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra», «Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo a Casalduni, essi bruciano ancora». La storia ci racconta che le prime furono le parole del Generale Enrico Cialdini (1811-1891), luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli,  quando ordinò l’incendio dei due paesi beneventani; a seguire il telegramma firmato da chi aveva eseguito l’ordine. Fu la vendetta per i luttuosi avvenimenti dell’11 agosto 1861 e il massacro di 45 soldati piemontesi. Quale fu l’epilogo di questa lunga giornata? Gli storici continuano il loro racconto affermando che i due ufficiali incaricati di eseguire l’intervento furono: il luogotenente Pier Eleonoro Negri (1818-1887), che al comando di un plotone di 500 bersaglieri entrò in Pontelandolfo, e il maggiore Carlo Magno Melegari, che con 400 bersaglieri al seguito puntò a Casalduni. Siamo all’alba del 14  agosto 1861. Quando il maggiore Melegari entrò in Casalduni rimase esterrefatto: trovò il paese praticamente abbandonato (anche a quei tempi esistevano evidentemente le soffiate…) per cui si limitò –  diciamo così – soltanto a incendiarlo. Sembrava addirittura che non ci fosse stata nessuna vittima (recenti studi hanno accertato che  ce ne furono soltanto due). Tutt’altra cosa avvenne  a Pontelandolfo, dove fu vera strage. A leggere i resoconti di molti storici sembra che i cinquecento bersaglieri ebbero un comportamento da veri macellai, con saccheggi, strage di persone,  stupri, incendi. Quante vittime causò la tremenda rappresaglia? I due piccoli centri vennero rasi al suolo, con un numero di vittime complessivo tuttora incerto. Il  conteggio riporta  cifre sempre più alte, anche superiori a 164 come riportava allora Il Popolo d’Italia: a volte 200, 400, 800, financo più di mille. Per cui mi limito a osservare quanto segue.

Obiettività e polemica Ho citato in precedenza il saggio Terroni di Pino Aprile del 2010, soffermando la mia  attenzione sul terzo capitolo, La strage (da pag. 48 a pag. 93). La lettura di questo interessantissimo capitolo, nonché l’approfondimento di altri scritti anch’essi riportati in questo mio elaborato, ha scaturito in me la convinzione che la descrizione dei fatti accaduti principalmente in questi tre, terribili giorni, siano stati forse riportati – per fortuna non da tutti – con una licenza d’immaginazione, un po’ alla rinfusa, con poca chiarezza e con l’impiego di fonti molto carenti. Sembra spesso prevalere un intento ideologico-politico, in questi scritti degli “attuali revisionisti”, e di questo me ne rammarico, perché a soffrirne è la ricerca della verità storica. La “vera” storia dovrebbe essere trattata con colori bianchi e chiari senza forzature di tinte rosse o nere… Prendiamo questo passo, tratto dal saggio di Pino Aprile, a pagina 54:
«Riporto alcuni degli episodi, senza pretendere di risolvere nulla; salvo rendere l’idea  di quel che accadde ovunque, allora, al Sud. Maria Izzo forse era la più bella, perché erano tanti a volerla, fra i  fratelli d’Italia con libertà di stupro…la legarono nuda a un albero, con le gambe alzate e aperte. Finché uno di loro la finì, affondandole la baionetta nella pancia.
Concetta Biondi, invece, dopo lo stupro, fu spenta con una pallottola in fronte: era adolescente. Sua madre Rosa era stata violentata e sbudellata sotto i suoi occhi.
Maria Ciaburri dicono fosse a letto, col marito Giuseppe. Le saltarono addosso, dinanzi a lui. Poi li uccisero: prima l’uomo; lei dopo, quando se ne stancarono.
Per Giuseppe Santopietro e il figlio neonato bastò poco; a lui un colpo di fucile, al piccolo una sventrata di baionetta.
Quel paese, Pontelandolfo, faceva cinquemila abitanti. Ma i bersaglieri avevano buona tecnica: rastrellavano nelle case e spingevano i prigionieri alla baionetta, come una mandria, giù per le strade, sino a uno sbocco, dove attendevano i loro colleghi, che sparavano nel mucchio. Il paese era destinato a scomparire…». Dai registri dei defunti della Parrocchia di Pontelandolfo degli anni 1856-1861 estensore don Pietro Biondi, apprendiamo che: «n. 99 Pellegrino Santopietro di anni 36, morto acciso, n.100 Carlantonio Lese di anni 55, figlio di Maria Izzo, morto acciso; n.101 Maria Izzo di anni 94, arsa viva nella propri casa; n.102 Francesco Rinaldi di anni 28, morto acciso; n.103 Tommaso Rinaldi di anni 25, morto acciso; n.104 Giuseppe Santopietro di anni 28, morto acciso; n. 105 Giuseppe Ciaburri di anni 89, bruciato dalle fiamme nella propria abitazione; n.106 Concetta Biondi, di Modestino, di anni18, morta accisa nella propria abitazione; n. 107 Raffaele Barbieri di anni 34, morto acciso: n. 108 Nicola Biondi di anni 69, morto acciso in mezzo alla strada; n.109 Francesco Biondi di anni 45, morto acciso nella propria abitazione; n.109 bis Giovanni Mancini di anni 46, morto acciso dai Soldati Piemontesi nella contrada Cerquelle; n. 110 Antonio Rinaldi di anni 55, tocco dalle fiamme nell’incendio della propria casa.

Mettendo a confronto i due estratti, osserviamo:
Nota 1) – I morti del 14 agosto sono 13 di cui 10 furono uccisi. I morti bruciati sono due anziani: di 94 e 89 anni e uno di 55 anni che morirà dopo due giorni.
Nota 2) – Dei 13 morti, 11 sono uomini e 2 donne. Di queste vittime la più anziana ha 94 anni, e la più giovane 18 anni. Non risulta che morirono bambini o ragazzi.
Nota 3) – Il 14 agosto morirono 11 persone: la 12ª  (n. 109 bis) quasi sicuramente lo stesso giorno, ma fu seppellita 3 giorni dopo, la 13ª morì il 16 agosto (n.110)». (Fonte: padre francescano Davide Fernando Panella, dal saggio «Brigantaggio e repressione nel 1861. I fatti di Pontelandolfo e Casalduni nei documenti parrocchiali, Centro Studi del Sannio, Benevento, 2000). Alla fine di tutto ciò, mi devo forse ricredere? Vuoi vedere che alla fine forse aveva ragione Veneziani? Quel che è certo è che il saggio di padre Panella smentisce categoricamente che ci fu uno sterminio di massa. Concludo facendo mie le parole di uno scritto di  Marco Vigna: «…Deve essere considerato un cruento episodio di guerra civile, in cui una popolazione, che era a favore in parte dell’Italia, in parte del Sovrano borbonico, si trovò presa in mezzo ai due contendenti armati, subendo alternativamente le violenze d’entrambi…gli eccidi videro come vittime rispettivamente cittadini fedeli allo stato italiano, i bersaglieri e carabinieri fatti prigionieri, infine i civili caduti nelle rappresaglie. Nel totale di morti accertati la netta maggioranza, circa i 2/3, è costituita dai militari trucidati dopo le rese».

<Fine Parte 2>


Paolo Angelo Furbesco, Milano, Agosto 2018

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