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Metano Ricchezza e disperazione La triste storia del metano di Capitanata 2

L’occupazione pacifica proseguirà per oltre tre mesi, nel frattempo i comitati popolari unitari organizzeranno uno sciopero generale il 23 maggio in tutti i comuni e una grande marcia su Foggia il giorno stesso.

Un episodio racconta il clima che si respirava in quei giorni, raccontato da uno dei protagonisti. Un vecchio pastore ultraottantenne Domenico “Rumìniche” “bestemmiatore di forza e immaginifico. Mi blocca in piazza col suo linguaggio violentemente colorito, finché non riesce a trovare, tra gli innumerevoli taschini del gilé di velluto giallo, un giornale piegato infinite volte, che impaziente svolge e dal quale tira fuori 500 lire: me le consegna con una bestemmia – è da alcuni giorni che mi va cercando – e si scusa, pensionato di fame e solo al mondo, che non può di più. E mi grida di lottare fino in fondo per noi, per i giovani, per il domani: lui invecchiato dopo una vita bestiale, non può fare niente, se non testimoniare con quel gesto. Ma noi si”.

Sarà una giornata epocale, 30000 persone calarono su Foggia pacificamente, non ci sarà un incidente, anche perché gli organizzatori chiesero al Prefetto che il servizio d’ordine dovesse essere tenuto dai carabinieri dei propri paesi perché non si fidavano dei poliziotti dello Stato, seppur sdegnato, il Prefetto accolse la proposta, o comunque ci furono anche i carabinieri dei Monti Dauni quel giorno.

La grande stampa italiana ignorò la protesta, la RAI TV non degnò la manifestazione di nessun servizio nei telegiornali, ma se in Italia l’ordine era di cancellare la protesta, la BBC e la Reuter mandarono le proprie telecamere e i propri inviati a riprendere e spiegare questa singolare forma pacifica ed originale di protesta.

Questi sono solo alcuni degli slogans che furono portati in corteo dai manifestanti:

BASTA CON L’EMIGRAZIONE VOGLIAMO TORNARE ALLE NOSTRE FAMIGLIE;

STUDENTI E OPERAI: NO ALLA RAPINA DEL METANO;

IL METANO DELLA NOSTRA PROVINCIA RESTA NELLA NOSTRA PROVINCIA;

SIAMO ITALIANI ANCHE NOI;

SIGNORI DEL GOVERNO È ORA DI RICORDARVI ANCHE DEL MERIDIONE BASTA CON LE BUFFONATE. IL POPOLO È STANCO DI ESSERE PRESO PER IL CULO;

ON. LE COLOMBO PORTI AL GOVERNO LA NOSTRA VOCE IL MERIDIONE CHIEDE GIUSTIZIA CHIEDE LAVORO. VOGLIAMO LE INDUSTRIE.

Al termine della manifestazione, una delegazione dei comitati, di sindaci e Presidente della Provincia si recarono dal Prefetto con le loro richieste, ma il Prefetto rispose evasivamente, pertanto si decise di continuare l’occupazione dei pozzi.

Dopo quasi 30 giorni di occupazione nessuno fece passi concreti per dare risposte alla povera gente. Le donne esasperate si aggrapparono alla rete della recinzione scuotendola e urlando. Era il segnale di nervosismo che lo Stato aspettava, i giornali titolarono che gravi incidenti stavano avvenendo intorno alla centrale. Poche urla di disperazione si trasformarono in mano ai pennivendoli di stato (la minuscola è voluta, perché quello non è lo Stato in cui mi riconosco) in gravissimi incidenti.

Qualche facinoroso c’era. Girò voce che alcuni volevano far saltare il ponte ferroviario della Potenza – Foggia, ma li faranno desistere facilmente, comunicandogli che la Foggia – Potenza andava verso la chiusura come “ramo secco” ferroviario e far saltare il ponte significava solamente accelerarne la morte.

Intanto la protesta andò avanti e si susseguirono promesse, rassicurazioni ed inviti alla tregua, emblematico il telegramma del Sottosegretario agli Interno On. Romita che prometteva venti milioni per attuazione interventi assistenziali e contrasto alla povertà, un’elemosina, che ovviamente nessuno mai vedrà una volta risolta l’occupazione.

Il Vescovo Mons. De Santis durante una celebrazione a Sant’Agata di Puglia chiese agli occupanti di por fine all’occupazione, permettendo così ai politici di programmare in serenità gli interventi promessi. Era in buona fede il Vescovo, o era a conoscenza del previsto intervento delle forze dell’ordine di sgombrare i pozzi?

Qualche anno dopo, all’atto dell’insediamento quale ispettore generale di P.S. presso la Città del Vaticano, il Questore Valenti confermò la buona indole delle popolazioni daune, e nello stesso tempo svelò di aver ricevuto forti pressioni affinché durante il corteo fossero generati incidenti, così da permettere alle forze dell’ordine di intervenire e sgombrare i pozzi.

Un ingegnere della SNIA chiese al Prefetto e al Questore di intervenire manu militari con 500 uomini per sgombrare il centro, poiché a causa dell’occupazione il siderurgico di Taranto rischiava la chiusura a causa della mancanza di metano. Il questore Valenti, lo Stato che ci piace, chiamò Taranto e venne rassicurato sul non blocco della produzione, poiché oltre al metano c’erano altre fonti fossili per far funzionare l’impianto.

In ogni caso l’offensiva non sarebbe tardata, se la DC era stata sempre scettica su ogni forma di protesta, nel giugno del 1969 anche il PCI inizierà a defilarsi. La sorte della protesta sembra segnata. Caduto il governo, le forze politiche hanno buon gioco a convincere i manifestanti che venendo meno l’interlocutore, l’occupazione non aveva più senso. La SNIA continuò con grandi promesse di stabilimenti per creare lavoro e la gente esausta fece finta di crederci. Dopo 56 giorni di occupazione, il 14 luglio la centrale venne liberata, i tecnici della SNIA impiegarono pochi minuti per riattivare gli impianti. Non c’era stato nessun danneggiamento.

Liberati gli impianti, si attendevano la realizzazione delle promesse lavorative, ma nei due mesi successivi non si mosse nulla. Il 31 agosto 1969 blandamente e scoraggiati, i Comitati provarono a riunirsi nuovamente per concertare nuove forme di lotta, ma lo Stato non aveva voglia di scherzare questa volta e mostrò la sua faccia cattiva, prima che i comitati potessero capire da dove arrivavano, verranno assestati colpi pesantissimi. I carabinieri denunciarono 305 lavoratori con accuse surreali, ma gravissime: “Istigazione e associazione a delinquere, arbitraria invasione e occupazione di azienda privata, danneggiamenti, grida, manifestazione e raduno sedizioso”. La SNIA chiese danni per 150 mln, la SNAM invece per oltre 400 milioni per il mancato funzionamento dei metanodotti. I denunciati appartenevano tutti alla sinistra, la DC aveva tutelato i suoi.

La gente non poté far altro che emigrare, ma lo Stato negò i visti per i passaporti, proibì, inoltre, ai diplomati di accedere ai concorsi pubblici.

Si era chiesto lavoro pacificamente con compostezza e dignità e si era risposto con le denunce. Quella buona gente dell’appennino dauno non aveva causato disordini, non aveva fatto scempi, non avevano manifestato il loro diritto al lavoro con violenza e sopraffazione e lo Stato rispose con forza. Era un attacco contro i lavoratori ed i disperati degno di una dittatura sudamericana, un provvedimento demenziale, tanto che lo Stato stesso sarà costretto a cassarlo con l’amnistia del 1971, ma intanto aveva fatto vedere di cosa era capace ed i cafoni dauni, decisero di partire, di emigrare il più lontano possibile, adesso che gli era permesso.

Fu la fine della protesta, fu la fine della speranza.

Fonti: Metano di Capitana di Mario Giorgio, Ed. del Rosone, Foggia 1998.

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