La corruzione, la malversazione, la brama di denaro, non sono mali dei nostri giorni. Hanno afflitto da sempre il genere umano. Chi non ha tradotto al liceo qualche passo delle “Verrine” di Cicerone: “Aedis Minervae est in Insula, de qua ante dixi; quam Marcellus non attigit, quam plenam atque ornatam reliquit; quae ab isto sic spoliata atque direpta est, non ut ab hoste aliquo, qui tamen in bello religionem et consuetudinis iura retineret, sed ut a barbaris praedonibus vexata esse videatur”
(C’è un tempio di Minerva sull’isola, di cui ho già parlato, e che Marcello non ha toccato, lo ha lasciato pieno di tutti i suoi tesori e ornamenti, ma che così è stato svuotato e attaccato da Verre, che sembra essere stato nelle mani non di un nemico, i nemici, anche in guerra, rispettano i riti della religione e i costumi del paese, ma di un qualche pirata barbaro).
Rubava Verre, approfittando della sua carica di governatore della Sicilia, ma ciò che lo rende simile al politico odierno è il suo averla fatta franca. Durante il processo ammise le colpe e scappò a Marsiglia a godere delle sue ricchezze. Epilogo simile all’uomo di Hammamet.
Anche noi della Valfortore non ci siamo fatti mancare malversazioni nel governo della cosa pubblica. Agli albori del secolo scorso e precisamente nel 1912, il dott. Giovanni Conti, regio commissario prefettizio, dovette intervenire nel comune di San Bartolomeo in Galdo a causa di malversazioni e grazie all’amica Cristina Giuliani erede Catalano, abbiamo scoperto che fu costretto ad intervenire anche dai nostri vicini “vasuciar” nel 1913, l’anno successivo al nostro commissariamento. Invece di tornare a Benevento, l’avvocato Conti fu costretto a fermarsi a Baselice.
I punti di contatto tra le due relazioni sono molti: la classe politica inadeguata, i problemi della viabilità, dell’acqua potabile, dell’illuminazione pubblica, dei contenziosi.
Non fu tenero il commissario Conti nei confronti dell’Amministrazione dell’avv. Saccone, nella sua relazione di fine mandato scriveva: “Gran abusi sono stati commessi dagli amministratori per il soddisfacimento di privati loro interessi o per favorire amici e partigiani. Numerevoli provvedimenti si sono presi in odio agli avversari. Ad irregolarità danno luogo i servizi di tesoreria e di erogazione delle spese. Alla compilazione del bilancio del corrente esercizio ha dovuto provvedere un commissario prefettizio e l’applicazione della tassa fuocatico è stata fatta con criteri palesemente partigiani come ha rilevato un’apposita inchiesta…anche nell’andamento dei pubblici servizi e specialmente di quelli di nettezza urbana e di manutenzione stradale, sono state riscontrate gravi manchevolezze…le anormali condizioni dell’amministrazione ed imparticolar modo gli atti di partigianeria hanno provocato vivo malcontento che potrebbe esser causa di turbamento dell’ordine pubblico…per la sistemazione della civica azienda nessun assegnamento può farsi sugli attuali amministratori, dimostratisi inetti e noncuranti del pubblico bene; si impone quindi un eccezionale misura, che valga anche a ricondurre la calma e la tranquillità nella popolazione”.
Poteva star tranquillo il dott. Conti, noi sanbartolomeani mai avremmo turbato l’ordine pubblico, colui che ci ha chiamato “cazzabbubboli”, meriterebbe l’equivalente di un Nobel per la sociologia. Al massimo, e se possibile, avremmo dilatato ancor più la valvola dell’emigrazione e ce ne saremmo andati in America.
Ma se San Bartolomeo piangeva per l’inettitudine e le malversazioni dei propri amministratori, i nostri cugini di Baselice non ridevano. Mentre tornava a Benevento, dopo aver assolto egregiamente il suo lavoro a San Bartolomeo, il commissario Conti dovette fermarsi a Baselice.
Non conosciamo il nome del sindaco che ha governato Baselice prima dell’arrivo dell’avv. Conti, non conosciamo i nomi dei consiglieri che componevano quell’amministrazione, e nemmeno ci interessa, chi vorrà, credo non avrà difficoltà a conoscerne i nomi.
Sappiamo però, che l’avv. Conti fu tranciante non solo con il suo predecessore, ma con tutta la classe politica baselicese post unitaria.
Grazie all’amica Cristina, abbiamo avuto la possibilità di visionare la relazione di fine mandato del commissario Giovanni Conti, letta al neoconsiglio comunale di Baselice il 5 marzo 1914. La relazione fu edita dalla Premiata Tipografia Nazzareno Borrelli sita in Piazza Duomo 10 e inviata con dedica dal Commissario al Cav.re e Gran Signore Lillo Catalano.
Nell’incipit della relazione leggiamo: “Signori, Nel vostro Comune, da decenni, le Amministrazioni si sono rette a furia di espedienti, trascurando gl’interessi vitali della cittadinanza. E’ mancata in tutti la volontà di affrontare e risolvere i gravi problemi cittadini, e le così dette classi dirigenti sciuparono ogni attività nell’assicurarsi privati tornaconti, nel rassodare supremazie familiari, disperdendo le risorse del bilancio in mille rivoli, e vincolando il Comune con passività causate per buona parte da liti temerarie, a cui una più esatta percezione della propria responsabilità e della realtà delle cose, avrebbe potuto dare diversa e più favorevole soluzione. Per tale condizione di fatti non è a sorprendere se il Comune sia andato sempre peggiorando nella sua situazione amministrativa e finanziaria: i bilanci fittizi nascondevano la gravità della situazione: le tasse non si riscuotevano o si riscuotevano con sperequazioni gravissime, i servizi pubblici abbandonati, insoluti i problemi dell’acquedotto, della viabilità e delle vertenze demaniali, per la mancanza di qualsiasi iniziativa, sfiduciata la popolazione, e la classe agricola in ispecie, per aver visto tante volte irrise le loro legittime aspirazioni”.
Una situazione di malgoverno che perdurava da anni e che il Regio Commissario ha voluto mettere nero su bianco, forse per dar maggior risonanza al suo lavoro. D’altra parte in un mondo di ciechi, anche un orbo è re. Rispetto alla classe politica che l’ha preceduto, l’avv. Conti sembrava un Pericle della Valfortore.
I problemi che dovette affrontare furono moltissimi, pertanto cercò di muoversi usando come metro: l’urgenza. Nella Valfortore non avevamo inquinamento atmosferico ad inizio secolo, ma avevamo il problema dell’acqua potabile.
A San Bartolomeo il problema dell’acqua potabile per la popolazione fu affrontato dall’Abate commendatario di Santa Maria a Mazzocca, don Antonio Curtler. Egli a sue spese, nel 1791, fece costruire una grande fontana al centro del paese, che captava alcune polle sulla montagna ad est del borgo e mediante un acquedotto di circa 7 chilometri vi fece sgorgare un’ottima acqua che zampillava in cinque distinti gettiti, uno al centro e altri quattro minori. Purtroppo la morte dell’abate, l’incuria delle amministrazioni, fecero sì che la portata dell’acqua si riducesse moltissimo e gli abitanti del borgo per provvedere ad un po’ d’acqua e dissetarsi, erano costretti a recarsi presso le fontane del circondario: delle Taverne, Pocchiazza, Garza, Fojanese, San Stazio, Gemma, Pisciarelli, Fontana Padule, Stretta fucile, Fontana della Tona, Sant’Angelo, Santa Croce, quella dei cervi.
In tale stato di incuria fummo colti, all’alba dell’unità d’Italia, dalla giornalista garibaldina Jesse White Mario, che osservando le tribolazioni che la gente di San Bartolomeo era costretta a sopportare per procurarsi un po’ d’acqua ne trasse l’errata conclusione della nostra arretratezza, tuttavia ci definì popolazione di “una certa intelligenza e di buonissima indole”.
Ma se la classe dirigente paesana durante il regno di Napoli non fu in grado di dotarci di un acquedotto, il mio enorme grazie continua ad andare all’abate Curtler per aver alleviato i disagi della popolazione sanbartolomeana, la stessa classe politica convertitasi al liberalismo piemontese, ancora nel 1912 non era stata in grado di costruire il tanto sospirato acquedotto civico, sogno accarezzato “per anni da questa buona e mite popolazione”. A distanza di cinquant’anni, la popolazione restava mite, la classe politica restava delinquenziale e il borgo restava senz’acqua. Una smentita clamorosa alla ciclicità del tempo teorizzata dal Vico.
L’approvvigionamento di acqua potabile fu il primo problema che l’avv. Conti provò a risolvere in quel di Baselice durante il suo breve mandato commissariale. Fino ad allora i cittadini di Baselice si approvvigionavano presso due sorgenti, da una sgorgava acqua “veramente ottima”, la sorgente detta “delle Frodi”, l’altra, quella dell’Oliveto meno copiosa.
Anche a Baselice come a San Bartolomeo, progetti per captare delle polli d’acqua e portarle in paese furono redatti e forse pagati, ma oltre non si andò. L’ultimo progetto in ordine di tempo, fu quello redatto nel 1911 dall’ing. Paolucci di Benevento. I lavori furono affidati all’impresa Massa che aveva già costruito il Ponte di Santa Maria, ma procedettero con estrema lentezza, tanto che furono completati solo nel 1913. Se nel 1913 due anni per la costruzione di un acquedotto vennero considerati tempi biblici, non oso pensare cosa direbbe oggi il Commissario se fosse a conoscenza dei tempi di costruzione dell’ospedale di San Bartolomeo in Galdo o della famigerata “Fortorina”.
Caso volle, o forse è meglio chiamarla incapacità, che una volta completata l’opera, l’acqua non sgorgasse, al che il commissario credette che “la mancanza di acqua sia imputabile per parte alla siccità che ha isterilite tutte le sorgenti, anche di assai maggiore importanza che non la vostra, per parte al maggior concorso della popolazione per attingere dai due fontanini”.
Intraprendere la costruzione di un acquedotto che portasse l’acqua dalla sorgente dell’Oliveto fino al borgo, a quel punto fu fuori discussione. Tuttavia anche a Baselice il sogno restava l’acquedotto civico, i villani volevano l’acqua e condizioni di vita migliori, così nel settembre 1913 manifestarono veementemente contro l’amministrazione straordinaria dell’avv. Conti. Costui giudicò ingrata e strumentalizzata dai vecchi “padroni” del paese tale manifestazione, ma cercò di trovare una soluzione, visionò tutte le sorgenti d’acqua nei pressi del paese e arrivò alla conclusione che l’acquedotto non poteva costruirsi per due motivi, il primo dovuto alla mancanza di acqua per un paese come Baselice, giacché né la sorgente del sig. De Mathia a Pietramonte, né quella di San Giovanni furono ritenute sufficienti, l’altro era un motivo puramente economico, occorrevano circa lire duecentomila per la costruzione di un acquedotto.
La seconda urgenza che il Commissario dovette affrontare fu l’insufficiente illuminazione pubblica. A San Bartolomeo l’illuminazione era con fanali parte a petrolio e parte a gas acetilene, ma anche da noi insufficiente. In primis l’avvocato Conti fece elevare delle contravvenzioni a carico dell’appaltatore e dunque se il contratto di appalto prevedeva 34 punti luce, 34 fanali dovevano essere accesi. Non poté far altro, lasciò un monito agli amministratori che gli succedettero, affinché sostituissero i fanali a petrolio con quelli a gas acetilene.
Baselice aveva meno lampioni di San Bartolomeo, solo 19 fanali, ma erano tutti alimentati a gas acetilene. La spesa per l’illuminazione costava ai cittadini lire 600 annue, ma anche nel comune nostro dirimpettaio, “per ragioni diverse” le lampade erano accese in numero minore e solo per poche ore per metà mese, “giacché per l’altra il buon cittadino deve affidarsi alla luna, la celeste paolotta del Carducci, i cui raggi non sempre arrivano a diradare le tenebre e a rischiarare il cammino per le disagevoli vie del vostro Comune”.
Anche in questo caso i lamenti dei poveri cristi, soprattutto la classe agricola che usciva per le occupazioni di campagna ben prima dell’alba, furono inascoltati da coloro che reggevano le sorti del Comune.
Il Commissario osò molto più che a San Bartolomeo, contattò la Ditta romana Antonio Daclon per impiantare nel comune di Baselice la meravigliosa illuminazione elettrica, stipulò un contratto a condizioni assai favorevoli per il Comune, e quando snocciolerò i termini e le cifre lo confermerete anche voi. L’Amministrazione si impegnava a versare un canone annuo di lire 1300 a fronte di 35 lampade elettriche da sedici candele e 9 da dieci “provvedendo ad illuminare l’intero abitato, e non come ora la sola via principale”.
La riflessione è presto fatta, i “signori” che reggevano le sorti del borgo avevano appaltato ad una ditta l’illuminazione a gas acetilene della sola via principale, probabilmente dove abitavano loro, l’appaltatore però, fregava anche loro, accendendo le 19 luci solo per metà mese e nemmeno tutti i fanali, per la “modica” cifra di lire 600, il Commissario che teneva davvero al bene pubblico era riuscito ad ottenere ben 44 lampioni a luce elettrica, di diversa intensità, da posizionarsi anche nelle zone popolari di Baselice a sole lire 1300.
Il Comune veniva a spendere poco più del doppio, le lampade però, oltre ad essere più del doppio, erano molto più luminose, accese tutta la notte, e soprattutto posizionate in tutto il paese “dando comodità doverosa anche alla povera gente che vive nei vicoli o nei rioni lontani dal centro, che, concorrendo a sostenere i sacrifizi pel Comune, ha diritto ad avere i vantaggi ed i benefizi”.
Purtroppo il Commissario non riuscì a veder compiuta la sua opera, poiché quando lasciò l’incarico, la Prefettura doveva ancora approvare definitivamente il capitolato, lasciò questa eredità a chi gli succedette.
Chissà se l’amministrazione Petruccelli, che riprese le redini del Comune seguì la via tracciata dal Commissario, oppure pensò ad illuminare elettricamente solo la via principale?
Un altro dei problemi mai risolti dalle amministrazioni succedutesi a Baselice dopo l’Unità, fu la costruzione di una strada che lo liberasse dall’isolamento in cui era relegato. Una strada che lo collegasse al Capoluogo di circondario San Bartolomeo in Galdo e gli permettesse di ampliare così i propri commerci.
Fino alla costruzione della strada che oggigiorno transita per ponte Setteluci, la distanza tra Baselice e San Bartolomeo in Galdo, tralasciando le vie mulattiere “disagevoli, aspre e d’impossibile percorso nella stagione invernale”, era di circa 31 chilometri, passando da Setteluci la distanza si sarebbe ridotta della metà ed avrebbe recato indubbi vantaggi all’economia del borgo.
La popolazione chiedeva a gran voce la strada e sembrava che le amministrazioni facessero proprie le istanze del popolo, ma in circa 50 anni poco o nulla si mosse, se non un velleitario tentativo di affidare all’ing. Capuano un progetto primitivo “Progetto Biancardi”, forse una lontana promessa postunitaria di sviluppo, come le strade ferrate e la ridistribuzione delle terre.
L’unica strada per raggiungere la provinciale restava quella malmessa che transitava da Ponte Carboniera. Costruita prima della gloriosa Unità.
La strada, progettata dal Biancardi, fu cominciata nel 1879, ma i soldi che dovevano bastare per completarla, furono appena sufficienti per la progettazione e la costruzione di un paio di chilometri. La rapacità degli amministratori pubblici nel periodo postunitario è leggendaria.
La via cadde nel dimenticatoio con gravi danni alla già misera economia locale. Due sole amministrazioni provarono a riprendere l’iniziativa, con un affidamento all’ing. Capuano: De Lellis e Marsullo, ma i costi più che raddoppiati erano un ostacolo insuperabile senza un aiuto esterno.
A questa grave situazione cercò di porre rimedio il Commissario. Riprese il progetto originario “Progetto Biancardi” per aggiornarlo e per valutare eventuali variazioni da apportare. Ottenne dal Capuano il progetto a lui affidato dalle Amministrazioni succedutesi dal 1910 e incaricò l’ing. Paolucci di Benevento, lo stesso del mezzo fiasco dell’acquedotto (la domanda ce la poniamo anche noi, il Paolucci era parente o amico del Commissario, oppure aveva grandi capacità latenti, che solo il Conti riusciva a vedere?), il quale presentò una relazione preliminare da cui si rilevava una spesa di lire duecentocinquantamila.
Si riproponeva lo stesso problema affrontato da De Lellis e Marsullo: la mancanza di soldi.
Non si perse d’animo il dott. Conti, con deliberazione del 18 settembre 1913 rivolse un’istanza alla Provincia per ottenere una parte del finanziamento. Senza santi in paradiso, un’istanza della Valfortore a Benevento avrebbe avuto le stesse probabilità di essere accolta, di quelle che abbiamo noi di vedere in funzione l’ospedale di San Bartolomeo.
Ma qualche volta i santi ci sono, il suo nome era Vincenzo Bianchi, figlio dell’illustre Leonardo, deputato del luogo, che riuscì ad ottenere un finanziamento di lire cinquantamila, che unite a lire 70550 che per contratto doveva stanziare il comune di San Bartolomeo e lire 33200 del comune di Foiano, raggiungevano un totale di lire 150.000. La strada entrava così nel campo del reale, difatti con deliberazione del 13 novembre 1913, approvata il 27 successivo il Commissario affidò l’incarico all’ing. Paolucci di ultimare tutti i dettagli tecnici, ma soprattutto di dividere l’opera in due tratti: il 1° tratto che andava dalla provinciale al torrente Selvaggina e costruzione del ponte stesso; il 2° tratto che dal Selvaggina raggiungeva Baselice.
La divisione in due tratti doveva permettere al Commissario di appaltare subito il primo e dar tempo alla nascente Amministrazione di poter richiedere un prestito alla Cassa Depositi e Prestiti di lire centomila per terminare i lavori del secondo lotto.
San Bartolomeo mantenne gli impegni, Foiano no. Baselice e Foiano non andavano d’accordissimo, il Conti ci dice che “le relazioni non molto buone esistenti fra le popolazioni dei due Comuni”, gli sconsigliarono di intraprendere una causa per far valere le ragioni del comune di Baselice.
Noi sambartolomeani pagammo, Foiano rese disponibili solo lire 9960. In ogni caso i lavori per la realizzazione del 1° tratto iniziarono e il Commissario confidava che fossero terminati entro la fine dell’anno 1914 e collaudato al massimo entro il 1915. Confidava il Conti inoltre, che il nuovo sindaco, il barone Petruccelli sarebbe stato in grado di far mutare il volere del sindaco di Foiano “congiunto Carissimo”. Credo che quel “congiunto” volesse significare un grado di parentela tra il Petruccelli ed il Carissimo.
Insomma i sambartolomeani sono cazzabbubboli, ma mantennero l’impegno, i foianesi dopo aver assunto l’impegno con regolari deliberazioni del proprio Consiglio comunale, non le rispettarono, non rispettarono una “legge” che loro stessi s’erano dati, dunque, erano e sono dei senza legge.